La 13. Mostra Internazionale di Architettura, diretta da David Chipperfield e intitolata Common Ground, invita il mondo dell'architettura a riportarsi su un "terreno comune", facendo un passo indietro e ricercando basi condivise che possano aprire un dialogo con la Società.
È lo stesso Chipperfield a introdurre così la sua mostra: è tempo che "l'universo architettura" non venga più visto come "una serie di archi-star indipendenti sui loro piedistalli, come tanti profumi al dutyfree di un aeroporto".
Il suo racconto si compone di 58 progetti firmati da inediti collettivi di architetti, fotografi, artisti, critici e studiosi; per un totale di 103 presenze. In un primo tempo ne erano stati invitati una ventina, che a loro volta hanno coinvolto altri partner, per dimostrare come il mondo dell'architettura possa "fare squadra" e concentrarsi su preoccupazioni concrete.
Mister Chipperfield aveva infatti chiesto a «un limitato gruppo di architetti di sviluppare idee che potessero portare a ulteriori inviti». L'intenzione (o forse l'auspicio) era di attrarre a Venezia punti di vista diversi ed eccentrici sul tema della città.
Tuttavia una prima critica piovuta sulla mostra è la parzialità di questa analisi, che include ad esempio un solo architetto africano e nessun cinese o... francese. Ogni analisi che si supponga seria e onesta deve porsi dei limiti e non può pretendere di essere esaustiva ma il rischio di trasformare il "dialogo aperto" delle intenzioni in una chiacchierata tra amici (e amici di amici) è reale.
Come spesso succede, «Common Ground» sembra nascere anche come reazione alla precedente Biennale curata da Kazuyo Sejima, incentrata sull’esperienza immediata e sensoriale, e forse per questo si inerpica in una ricerca concettuale addirittura alle radici del "fare" architettura.
Il risultato è una mostra "non così divertente" come gli anni passati, non così spettacolare e nemmeno provocatoria, piuttosto una ricognizione in un mondo che cerca di ripartire dalla Crisi globale, da situazioni di povertà endemiche (il leone d'oro Torre David / Gran Horizonte di Urban Think Tank) o dagli effetti delle catastrofi naturale (l'altro Leone d'Oro, il Japanese Pavilion - Home for All curato da Toyo Ito).
La Biennale come "Disneyland temporanea" (in cui peraltro l'edizione architettura sta a quella d'arte come certi parchi di divertimento nostrani a confronto con i giganti americani) ha davvero fatto il suo tempo? Il caleidoscopio di forme, colori e "stili", riconducibili a quella o quell'altra "grande firma", ha davvero lasciato spazio ai resoconti di laboratori urbani in cui archistar attentissime ascoltano i desideri dei pescatori o del sindacato delle badanti, anzichè proporre una loro formula magica e risolutrice?
Immaginiamo lo spaesamento che avrà attraversato gli studi invitati quando, riagganciato il ricevitore dopo un improvvisato elogio delle virtù della "progettazione partecipata", si saranno chiesti: E adesso cosa inviamo? Niente giochi basati sullo straniamento di un "fuori scala" o sulla piacevole indefinitezza di un object a réaction poétique... per questa edizione solo racconti il più possibile chiari (e a lieto fine) di lunghi processi, di influenze, di rinunce, di contaminazioni...
Le risposte ad una richiesta tanto impegnativa sono state le più diverse: dallo sforzo realmente commovente di affrontare il post Tsunami, testimoniato dal Japanese Pavilion - Home for All del cui buon esito abbiamo già accennato, alle fughe nell'astrazione (Originaire - China Pavilion) o nella tecnologia (Russian Pavilion - i- city). Un caso emblematico è quello del Dutch pavilion - Re-set, new wings for architecture: i Paesi Bassi, per tradizione una delle terre più innovative e propositive nel campo dell'architettura, presentano uno spazio vuoto con un telo, che scorre vicino alle pareti, su cui è impresso un solo grande punto.
In realtà questa mostra Veneziana sembra indicare che il momento del Reset è già dietro le spalle e che forse la prossima edizione potrà essere (finalmente) quella del WE BUILD. Siamo pronti?
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