DIONISO RISING | GAME (Gabriele Architetto Marinelli Enterprise)

Società Agricola Capriotti: progettazione di una cantina vinicola attraverso la parziale demolizione e ricostruzione di un annesso agricolo Castelplanio / Italy / 2022

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Dioniso rising.


Il racconto della cantina Capriotti.


 


Progetto architettonico: Gabriele Marinelli, architetto.


Collaboratori al progetto architettonico: Carlo Marinelli, geometra; Cristiano Campolucci, ingegnere.


Programma: Realizzazione in due fasi di una cantina vinicola.


Committente: Società Agricola Capriotti


Calendario: 2020 (affidamento dell’incarico) – in corso


Luogo:
via San Filippo, Castelplanio, Ancona.


Coordinate geografiche:
43°29’50.6” N, 13°06’08.7” E


 


1. Chi sono loro (antefatto). La Società Agricola Capriotti è una piccola azienda a conduzione familiare impegnata nella produzione di olio extravergine d’oliva e di vino Verdicchio, suo prodotto di punta e motivo del progetto di seguito raccontato.


L’azienda nasce solamente pochi anni fa, nel 2014, quando i fratelli Capriotti decidono di riconvertire da seminativo a vigneto un piccolo terreno di tre ettari situato però in posizione ottimale tra i colli della Vallesina, dando il via alla loro attività sul mercato locale. Nel giro di poco tempo l’azienda riesce a crescere ed esprimersi sul territorio, costruendo dal basso, con pazienza, una solida rete di consumatori ed estimatori, subito destinata ad allargarsi. Già sul finire del 2019 infatti, al secondo anno di imbottigliamento, arrivano i primi riconoscimenti ufficiali: uno da parte della guida “Berebene” del Gambero Rosso, e l’altro da parte della guida regionale “Le Marche nel bicchiere 2020” redatta dall’Associazione Italiana Sommelier Marche. Due menzioni, una per ogni Verdicchio che produce, La Pietra e Kalamos: trovate le conferme che aspettava, da questo momento in poi l’azienda comincia a esportare i suoi prodotti anche fuori Regione.


2. Che cosa vogliono loro, cosa vogliamo noi (sogni e bisogni). La rapida evoluzione aziendale spesso si trascina dietro interrogativi e dubbi cui di solito si tende a non dare risposta, magari perché si è troppo concentrati nello stare al passo con lo stesso successo venutosi a creare. Allora, in quei casi, è importante non smarrire la bussola, ma ricordare da dove si viene e fissare per bene lo sguardo verso dove si vuole andare, supportando il percorso intrapreso con radici tenaci e altrettanto chiare visioni.


Il progetto che andremo a raccontare risponde quindi al bisogno dell’azienda di conoscere e riconoscere se stessa, cementando quelle certezze e quei risultati finora raggiunti – che sono la base solida da cui puntare verso quelli che saranno i suoi obiettivi futuri – in una nuova forma fisica, definita e riconoscibile, e in spazi adeguati ai suoi scopi; ossia traducendosi in architettura.


Allo stato attuale delle cose, pur vantando un ottimo appezzamento di terreno per esposizione e resa, in sostanza l’azienda è priva di una vera e propria sede operativa e di
rappresentanza, tanto che il rapido sviluppo commerciale della stessa rischia di non trovare un adeguato supporto strutturale. Lo scopo immediato quindi è quello di dotarla di una nuova casa, un nuovo luogo fisico, funzionale alla concretizzazione dell’intero processo lavorativo in un prodotto godibile e vendibile; funzionale a darle un corpo tangibile e un’immagine visiva riconoscibile attraverso un progetto spaziale e materico che ne racconti il modus operandi e la visione; funzionale infine a inserirsi nel sistema territoriale del turismo enogastronomico, incentrato sull’esperienza della cultura locale e delle sue eccellenze in rapporto diretto col paesaggio, di cui l’azienda stessa è già espressione, e di cui si candida a diventare un punto di riferimento stabile e certo anche attraverso la realizzazione di questo progetto.


3. Il programma d’azione (essere realisti). A questa coraggiosa visione segue la consapevolezza di un sensibile impegno economico e finanziario, da non sottovalutare, e in questo momento l’azienda non può permettersi passi falsi: il progetto dovrà per forza di cose svilupparsi in un programma realizzativo scandito per fasi cronologicamente distinte (e quindi più controllabili), proponendo pur sempre la realizzazione di un nuovo e unico luogo fisico, un edificio che una volta completato nella sua interezza possa funzionare da cantina tout court, con i suoi spazi operativi, di rappresentanza e di convivialità.


Le differenti fasi del programma sono necessarie all’azienda al fine di affrontare realisticamente un impegno economico di tale portata senza compromettersi. Ne sono state individuate due: la prima fase (che d’ora in poi chiameremo Fase 1), di stringente necessità, ha come obiettivo la realizzazione di quello che chiameremo Blocco 1, dedicato al lavoro, o meglio ai risultati del lavoro, ossia un volume che funga da deposito per la merce già imbottigliata, un laboratorio interno dotato della strumentazione e dei macchinari necessari, uno spogliatoio con servizio igienico per il personale, un punto di vendita diretta al pubblico e una piccola sala di accoglienza. La seconda fase (Fase 2) prevede la realizzazione del cosiddetto Blocco 2, interamente dedicato alla convivialità, una vera e propria osteria dove degustare i prodotti vinicoli e non solo dell’azienda. I due Blocchi così distinti saranno collegati da una grande copertura composta per moduli, cosa che ne faciliterà la realizzazione articolata e suddivisa in ciascuna delle rispettive fasi.


4. Dove siamo (inquadramento territoriale). L’azienda ricade sotto l’amministrazione del Comune di Castelplanio, nella provincia di Ancona: è situata lungo la media valle del fiume
Esino, in quell’area geografica di transizione dove i colli si abbassano e allargano, lasciando poi campo aperto alle pianure verso il mare. È il territorio di quelli che erano i Castelli di Jesi, patria riconosciuta del Verdicchio – vino celebre e premiato in tutto il mondo. I tre ettari di vigneto dell’azienda si estendono sul versante nord della valle, a circa 150 metri sul livello del mare, e sono raccolti attorno a un piccolo poggio di mezza costa; da qui, dopo una breve e ripida scarpata, il vigneto discende verso il fondovalle (rappresentato dal fiume e dalla strada) con un profilo orografico ad andamento iperbolico, accentuato dalla geometria regolare e parallela dei filari. La posizione geografica le assicura una ricezione ottimale della luce solare durante tutto l’anno, e riesce a regalare un campo visivo invidiabile: lo sguardo è libero di spaziare sull’intero paesaggio della vallata, da est a ovest, fronteggiando il profilo ondulato del versante sud della valle. Su quel poggio, attualmente già occupato da altre costruzioni, dovrà sorgere la nuova sede aziendale.


Visto che in fondo si sta parlando di vino e della sua produzione, queste condizioni naturali, fisiche e chimiche renderebbero plausibile guardare all’area come a un terroir, cioè quel sistema complesso dato dalla relazione di numerosi fattori, non solo fisici e naturali ma anche legati al modo di vivere il vino e quello che gli sta attorno.


5. Lo stato dei luoghi: una critica. A sud e a ovest la vigna dei Capriotti è delimitata da due strade, per cui resta ben visibile a chi le percorre. Un visitatore che voglia andarsi a comprare qualche bottiglia di vino deve seguire la statale di fondovalle, via Cannegge (il limite sud), per poi svoltare su per il ripido tratto di via San Filippo (il limite ovest), e poi nuovamente a destra: non ci sono cancelli o altre soluzioni di continuità a demarcare l’accesso alla proprietà. La strada pubblica sfuma in quella privata, bordata sulla destra solo da un muretto a scalare in blocchi di calcestruzzo grezzo e qualche pianta d’olivo. Sulla sinistra invece è impossibile non notare l’evidente fisionomia nonché l’ingombrante presenza dei capannoni industriali di un ex mobilificio, oggi riconvertito alla sola rivendita commerciale.


Ci si accorge di essere arrivati a destinazione quando si oltrepassa il parcheggio e la facciata di questi grandi stabilimenti, lasciandoseli alle spalle, fino a che non si arriva a un’anonima quanto semplice casa costruita durante gli anni Sessanta, simile a tante altre costruite in quei decenni e sparpagliate nella zona: sviluppata su due piani, con tetto a doppia falda sfalsata in latero-cemento a vista, finestre in alluminio bianco, tapparelle in pvc e terrazzo a sbalzo in facciata, tinteggiata con vernice al quarzo plastico giallo e circondata da una ringhiera in cemento ad effetto boschetto oltre cui si stende un piccolo piazzale d’asfalto:
questa è l’attuale sede aziendale, il cui aspetto architettonico sembra fare da controcanto stonato alla posizione geografica prima descritta. In realtà, solo una piccola stanza al piano terra è dedicata a tale scopo, per il resto la casa è abitata da una parte della famiglia della committenza.


A pochi metri di distanza dalla casa, oltre il piazzale che la fronteggia, sorgono alcune pertinenze. La loro presenza delimita il piccolo piazzale e, poste in asse alla strada la interrompono. Sono interconnesse tra loro, letteralmente tirate su in differenti momenti temporali, partendo dalla prima metà del Novecento come dimostra la parte più antica, quella verso est: ad oggi questi spazi servono ad assecondare come meglio possono le esigenze lavorative dell’azienda.


In totale se ne contano due. Una grande, composta da due volumi chiusi a pianta rettangolare: il primo, quello prossimo alla strada, con copertura piana; l’altro, più vecchio, proteso verso il campo ad est, con copertura a falda unica. Sono collegati da una tettoia in lamiera su struttura metallica a mo’ di portico, che li sovrasta incorniciando il paesaggio del versante sud della valle.


L’altra pertinenza, molto più piccola, è un volume a pianta pressoché quadrata con copertura a falda unica, staccata e distante pochi metri dall’altra. Come detto, la strada termina proprio contro la facciata dotata di doppia serranda metallica della pertinenza più grande (praticamente l’ex garage della casa), mentre la pertinenza più piccola resta al di là del ciglio stradale sulla destra, come in bilico sulla scarpata del campo scosceso.


6. Sotto la maschera, oltre l’apparenza. E’ la facciata della pertinenza grande quindi oggi ad accogliere frontalmente il visitatore. Forse è per questo che in tempi recenti le è stata rifatta una sorta di cosmesi, ossia un nuovo intonaco a cemento tinteggiato dello stesso giallo della casa lì di fianco. Tuttavia questo discutibile intervento si ferma poco al di là dello spigolo del volume senza continuare oltre: basta svoltare l’angolo per vedere la realtà dello stato in cui versa il grosso della pertinenza.


Dietro alla posticcia tinteggiatura tutto appare alquanto labile: ai conci di pietra e ai mattoni del secondo volume, quello più antico e proteso verso est, coperto da un tetto a falda unica con orditura lignea e manto in coppi si susseguono in altezza mescolandosi tra loro senza soluzione di continuità blocchi in forati di laterizio e in calcestruzzo, putrelle in ferro e travetti prefabbricati in cemento vibrato, lamiere ondulate in via di arrugginimento, e poi di
nuovo pietra e mattoni e intonaco di cemento scrostato e ripreso... sicuramente ad un primo e superficiale sguardo tutto appare come detto labile, ma allo stesso tempo guardando un po’ più attentamente oltre quella fuorviante cosmesi di facciata, c’è un mondo assolutamente vero. E crudo.


Autentico paesaggio post-agricolo marchigiano d’oggi, non più esclusivamente rurale ma neanche ridotto a vile caricatura di se stesso da discutibili e fantasiosi recuperi architettonici che scimmiottano un passato troppo spesso inventato. In quei brani murari, in quell’alternanza di pieni e vuoti e spazi concatenati, di materiali vecchi e nuovi usati con estrema disinvoltura ma altrettanto autentica essenzialità rispondente ad una ben precisa necessità pratica e strategia funzionale sta l’autentico paesaggio rurale, o per meglio dire post rurale, delle campagne marchigiane.


(A scanso di equivoci, e ai fini del progetto in questione, occorre precisare che, pur apparentemente immersa in un contesto che per comodità di linguaggio si potrebbe definire rurale, l’attuale sede aziendale con le sue pertinenze ricade all’interno della cosiddetta Zona D1, ossia a destinazione artigianale/industriale, secondo le indicazioni contenute nel P.R.G. del Comune di Castelplanio, con tutto ciò che ne consegue in termini di normativa edilizia e urbanistica).


7. Presa di coscienza sul paesaggio. Elisée Reclus, geografo del secolo scorso, formulò un’immagine di grande sintesi ed efficacia: l’uomo, lungi dall’esserne in antitesi, non è altro che un espediente, un mezzo della natura attraverso il quale essa stessa evolve dandosi conoscenza e memoria. Come? Attraverso tecnica, scienza e arte. Attraverso l’industria. Fedeli all’assunto, paesaggio allora è tutto ciò che viene toccato dall’uomo, sottraendolo non alla natura, ma alle sue dinamiche caotiche e potenzialmente distruttive: ecco allora che potremmo definirlo una natura progettata. In senso migliore o peggiore? E per chi o cosa? Dipende, dai casi, o dalle epoche, o meglio ancora dai modi di produzione che plasmano la realtà... Se per natura intendiamo qualcosa di spontaneo, ossia che possa fare a meno dell’uomo, ormai in questo senso è ridotta ai minimi termini.


Torniamo sul poggio, al centro della terra dei Capriotti. Rimanendo entro al campo visivo di ciò che si può scorgere dalla posizione dell’attuale sede aziendale, può essere un piccolo esempio di natura indipendente dall’uomo la variegata macchia boschiva che punteggia i versanti della valle: all’arretrare dei campi coltivati può riconquistare terreno, ma in fin dei
conti è libera di muoversi solo all’interno di perimetri geometrici ben definiti e controllati – almeno per il momento.
Spaziamo con la vista: oltre alle vigne che corrono parallele disegnando i pendii distesi al sole; oltre agli ulivi disposti secondo griglie pressoché regolari; oltre allo sfumare dei campi coltivati nelle differenti tonalità cromatiche durante l’anno; oltre all’ondulato profilo del crinale del versante sud della valle dell’Esino e oltre al grande muraglione a gravità che sostiene il borgo di Maiolati Spontini ricalcandolo; oltre alle strade sterrate bordate da alberi; oltre ai borghi e ai castelli del vecchio contado di Jesi che puntano i loro campanili e le loro torri contro il cielo; oltre a tutte le vecchie pietre e ai mattoni e ai solchi della terra violentata e rivoltata dall’aratro sono allora paesaggio anche la superstrada, la ferrovia con i suoi enormi interventi infrastrutturali di recente costruzione banalmente ricoperti di vernice giallognola nella vana speranza di renderli meno visibili, gli anonimi capannoni industriali che punteggiano e ricoprono vaste aree del fondovalle, così come quelli dell’ex mobilificio lì vicino; la stessa casa già sede aziendale prima descritta; la grande tettoia metallica e luminosa del distributore di carburanti ai piedi della proprietà; il capannone industriale dipinto con molteplici e variegate tinte di un colorificio lì vicino, subito verso est, evidente esplicitazione tridimensionale della sua mission imprenditoriale, vero e proprio landmark del territorio; un’altra casa ancora, della stessa tipologia che ha generato quella che al momento funge da sede aziendale, ma tinteggiata di un rosa scuro e spento, a due piani, con tetto a padiglione in latero-cemento a vista, sita a monte della proprietà; le innumerevoli casupole, fienili, annessi e baracche in lamiera, forati a vista e improvvisati pali di sostegno; i mezzi agricoli in uso e quelli disuso, abbandonati ad arrugginire nei piazzali; i parcheggi scoperti pieni di auto in sosta, le bizzarre quanto improbabili recinzioni e così via... Tutti elementi che concorrono a definire una specie di mappa di quello che è oggi il paesaggio nel quale il progetto si inserisce: coesistono e insistono sul territorio, definendo in ogni caso quello che chiamiamo paesaggio.


Nello specifico, in quell’elenco vi possiamo trovare i vertici ideali di un perimetro irregolare che circonda le terre dell’azienda. Non importa se tali elementi siano belli o brutti, giusti o sbagliati; al di là di queste categorie estremamente elastiche, si potrebbe discutere se siano riusciti o meno, efficienti o meno, di qualità o meno, ma si può negare che anch’essi siano paesaggio, e quello qui descritto è quello che si riesce a coglie con lo sguardo da quel poggio su cui stanno le pertinenze, fulcro dell’azienda.
Proprio dalla ristrutturazione (attraverso demolizione e ricostruzione con mantenimento dello stesso volume) di queste pertinenze apparentemente sgangherate si va a costituire la base concreta attraverso cui realizzare il nuovo luogo fisico, la cantina della Società Agricola Capriotti, lavorando sulla dialettica tra due opposti: la continuità nel passaggio dal preesistente al nuovo (da ricercarsi nell’essenza degli spazi, nell’essenzializzazione delle forme, nei materiali trasformati e trasfigurati, nello spirito costruttivo) e la discontinuità formale (ossia mettere il tutto in forma diversamente e qualitativamente nuova, che superi la preesistenza trasformandola in un nuovo involucro, una nuova struttura che risponda al meglio alle esigenze rinnovate dell’azienda, proiettata nel futuro).


8. Metamorfosi e trasfigurazione: architettura come paesaggio, e viceversa. E’ lo stesso paesaggio circostante così come descritto la matrice del progetto: dall’orografia del terreno e dalla geometria dei filari delle vigne coltivate prende vita il suo concept di base. Non semplicemente in senso idealistico o romantico, come acquisizioni di vari e non meglio definiti genius loci, ma in senso letteralmente spaziale e geometrico, immediato nella sua estrema semplicità e chiarezza gestuale: il passo dei filari segna il passo strutturale della grande copertura del nuovo edificio sotto cui verranno realizzati in fasi differenti i due volumi prima indicati (Blocco 1 e Blocco 2), nei quali organizzare le varie fasi lavorative o meno della cantina.


C’è continuità geometrica, di posizione, di segno, tra il paesaggio agricolo e la nuova architettura, che non dovrà essere un oggetto a sé stante bensì una naturale estensione del paesaggio circostante su cui s’innesta e interagisce, verso un’unità organica di fondo. E poi, dialetticamente, sarà questa nuova presenza architettonica a farsi e fare paesaggio, segno riconoscibile, rigenerandolo e ridefinendolo ad un livello superiore.


Suggestioni, fantasmagorie, impressioni, reminiscenze... questo terroir ne è pieno, ridondante: sono le dimensioni dell’immaginario che possono portare ancora più in profondità questo racconto, aiutando a progettare non un edificio-oggetto stagliato su uno sfondo, quanto una porzione fisica di quello stesso terroir, facendo emergere la sua potenza scenica ed esprimendolo spazialmente.


Il segno lineare sul terreno, dritto, spezzato, curvo, obliquo o tremolante che sia, studiato o improvvisato, dettato dall’inerzia, dalla necessità o dalla volontà, che corre e sfuma apparentemente senza soluzione di continuità, è un elemento – geometrico e gestuale – predominante nel ricco mosaico del paesaggio locale: è la (trans)figurazione pratica del
lavoro dell’uomo che piega la natura trasformandola in paesaggio, dominandola; si ritrova in ogni campo arato (in negativo, per sottrazione della terra), o coltivato a vite (in positivo, per addizione sulla terra). Di questa presenza costante dei segni – del segno dell’uomo che fa il paesaggio nel trascorrere del tempo – è stato testimone, interprete e financo esecutore (anticipando di almeno un decennio la cosiddetta Land Art americana) Mario Giacomelli: le sue serie fotografiche dedicate al paesaggio marchigiano, trasfigurato, interiorizzato e reso altro da sé, in cui pulsa l’intensità ritmica del segno, reso astratto, emozionale e ambiguo da quell’antinaturale contrasto di opposti cromatici, stanno lì a dimostrarlo. Quei segni sono la voce e la struttura del paesaggio. Ne sono la sua matrice, custode mnemonica della sua esistenza sotto trasformazione.


Così come Giacomelli usa il medium fotografico non per eseguire didascalici reportage, ma per fare sua la campagna in mutamento e resuscitare a nuova vita quel paesaggio investendolo di diverso senso e ambigua bellezza, così tentiamo di fare noi attraverso l’architettura, medium di cui il progetto è il mezzo, attraverso cui quel segno lineare deposto sulla terra abbandona interiorizzandola sia la sua dimensione grafica (se visto alla distanza) che biologico-organica (propria della vite messa-in-forma dal filare) per diventare matrice architettonica di un’opera tridimensionale, senza perdere il proprio legame col contesto da cui nasce.


Il ritmo regolare dei filari individua il passo degli assi strutturali che compongono la grande copertura, che risulta così modulare: il progetto prevede dieci assi paralleli, cioè nove “campate” – in teoria, per assurdo, si potrebbe estendere oltre il colle, all’infinito...
Proprio come in certi scatti di Giacomelli, dove il basso è talmente schiacciato da confondersi con l’alto, la Terra sembra prendere il posto del Cielo e viceversa, e i punti di fuga prospettici si perdono per lasciare il campo a visioni ambiguamente schiacciate e perpendicolari proprie del volo – o di un occhio ultraterreno –, sarà la dimensione verticale del punto d’osservazione a dar prova evidente e certa di questa ricercata e voluta continuità geometrica e spaziale, di questo allineamento tra l’esistente e il nuovo. Una ricomposizione tra le parti tanto più evidente e forte quanto più ci si allontana dall’oggetto in questione, come di certo osservare tale insieme dall’alto del versante collinare opposto: la cantina, lungi dall’essere un’opera finita e chiusa su se stessa, si mostra in tutta la sua pienezza relazionandosi allo spazio verticale proprio della valle, confondendo se stessa tra la rumorosa moltitudine dei suoi segni.
Ogni decisione formale del progetto è motivata da molteplici aspetti, tutti relazionati e necessari a loro stessi: la grande copertura si proietta in avanti, verso la Terra, cercando il legame e la continuità con il vigneto, i cui filari come detto suggeriscono il passo strutturale, rimarcato dalle travi in acciaio a sbalzo protese in avanti. Tra i filari e le travi c’è solo il vuoto come soluzione di continuità.


Dalla parte opposta, verso nord, le travi s’impennano verso l’alto cercando il Cielo e assecondando l’orografia del terreno che sale verso la cima della collina; la copertura quindi s’incurva, piegandosi verso l’alto di 33 gradi anche per consentire ai pannelli fotovoltaici che supporta di disporsi secondo il migliore angolo di orientamento proprio di queste coordinate geografiche.


Le travi inclinate verso il Cielo sono ancorate con tiranti verso il basso, una soluzione statica che rimanda all’immagine dei travetti terminali dei filari infissi nel terreno e ancorati a terra dal tirante in ferro su cui si aggrappa la vite.
Tutto ciò genera una grande vela inclinata – uno spiovente invertito – che infine contribuisce a ombreggiare gli spazi esterni a nord durante i soleggiati mesi estivi, resi più piacevoli anche dal particolare microclima che si verrà a creare in prossimità della Loggia, quel vuoto coperto tra il Blocco 1 e il Blocco 2, dove il passaggio dell’aria reso più veloce dalla contrapposizione dei due blocchi contribuirà a smorzare la temperatura percepita.


La copertura, oltre che dal contesto, muove anche da profonde esigenze pratiche e funzionali legate alle fasi lavorative dell’azienda. Come già descritto, la tettoia come riparo dal sole e dalle piogge di uno spazio di lavoro all’aperto è già presente nella grande pertinenza preesistente: viene pertanto ripreso, riadattato e trasformato, fino ad esaltarlo in una dimensione consona alle nuove esigenze lavorative e non solo. La copertura, così come definita dal passo dei filari, ammanta sia il Blocco 1 che il Blocco 2, in parte riproponendosi come ponte tra i due, in parte come grande vela orizzontale a sbalzo sul vigneto sottostante, e la valle tutta.


Da prassi, molti progetti architettonici nella loro definizione fanno leva sul concetto di luce; questo, al contrario, fa dell’ombra la sua ispirazione, poiché sotto l’ombra generata dalla copertura a sbalzo c’è il vero core dell’azienda, uno spazio aperto ma coperto e riparato, vera e propria “ara” (aia) contemporanea e rivisitata, dove troverà spazio sia il lavoro legato alla produzione del vino – alla vendemmia – sia la convivialità che da sempre la qualifica.
Infatti, lo spazio aperto polifunzionale dell’aia è un elemento tipologico proprio delle case rurali in genere, perimetro spesso invisibile ma indispensabile e imprescindibile alla vita di quei luoghi – qui ora riproposto e aggiornato alle attuali esigenze. Così come l’aia identifica tali tipologie architettoniche, così il tema della tettoia come elemento architettonico a protezione e definizione di uno spazio particolare caratterizza il processo della vendemmia fin dai tempi antichi: lo ritroviamo rappresentato addirittura in molti mosaici dell’età classica greco-romana, e poi disseminato nell’arte fino ai giorni nostri. E sempre le scene rappresentate non sono solo di lavoro ma anche di gioiosa convivialità, nonostante la fatica fisica.


Il progetto si propone di recuperare tale aspetto non secondario: sotto la copertura dovranno trovare spazio tutte le operazioni (temporanee o meno) necessarie alla produzione del vino e lo stanziamento stabile nel futuro delle grandi botti in acciaio inox per la decantazione, ma data la sua estensione potrà anche in parte diventare una zona di festa, bivacco e ozio, il corrispettivo esterno del Blocco 2: l’osteria dedicata alla degustazione dei prodotti. Lo spazio non è mai nettamente suddiviso e definito, ma è l’uso che se ne fa a caratterizzarlo.


9. Sotto la copertura: lo spazio delle relazioni. E’ qui che si collocano i due distinti blocchi: il Blocco 1, dedicato allo stoccaggio e alla conservazione del prodotto finito e alla sua rivendita al pubblico; il Blocco 2, di successiva realizzazione (Fase 2) che funzionerà da osteria. Entrambi sono a pianta quadrata, il cui lato misura otto metri. Appaiono “infilati” sotto la struttura in travi d’acciaio della copertura, come cubi schiacciati dal suo peso.


Il Blocco 1 è posizionato in asse alla strada d’accesso (così come l’attuale pertinenza più grande che andrà a sostituire), quindi è anche trasversale ad essa: il suo prospetto ovest affaccia sul piazzale riprogettato nelle dimensioni e negli spazi di manovra. Tale prospetto segnala l’arrivo a destinazione: i mezzi preposti al carico e scarico merci utilizzeranno il piazzale antistante al Blocco 1 per le loro operazioni, mentre i visitatori privati arrivati in auto, una volta davanti alla facciata ovest del blocco, potranno svoltare sulla sinistra e parcheggiare nell’area dedicata, adiacente alla casa (già vecchia sede aziendale).


Il Blocco 2 invece verrà realizzato più verso est, e non sarà in asse al Blocco 1; piuttosto ruota su se stesso di circa dieci gradi verso nord, mostrando l’angolo al
visitatore, aprendosi ad esso e accogliendolo. È l’osteria, spazio di convivialità, e vi si accede diagonalmente: questa rotazione gli consente di non restare nascosto alle spalle del Blocco 1 ma appunto di mettersi in tensione, di differenziarsi acquisendo una propria identità
attraverso un apparente dinamismo che attrae il visitatore dandogli un punto di riferimento e una meta precisa. Una volta sceso dall’auto, il visitatore potrà dirigersi verso l’ingresso del Blocco 2 passando di fianco al Blocco 1, lasciandosi attrarre dall’angolo cavo di ingresso, seguendo quella particolare tessitura del pavimento sulla quale torneremo più avanti.


Lungo questo breve tragitto il visitatore non potrà non affacciarsi sullo spazio aperto e allo stesso tempo coperto che abbiamo denominato Loggia, individuato dalla contrapposizione del due Blocchi: oltre a offrirsi come terrazza affacciata sull’orizzonte e incorniciare il paesaggio del versante sud della valle (riproponendo visivamente in chiave aggiornata quanto già fatto dalla tettoia in lamiera della precedente pertinenza), individua quello spazio di lavoro a cui abbiamo già fatto riferimento, riparato, flessibile e di fondamentale importanza per l’economia dell’azienda, collegata direttamente alla piattaforma sottostante. In sezione, infatti, il progetto si sviluppa su due livelli distinti e collegati da una grande scalinata esterna, estesa tra la Loggia e il Blocco 2 (oltre che da una rampa percorribile anche dai mezzi meccanici necessari alle lavorazioni posta invece all’estremità ovest e collegata al piazzale antistante il Blocco 1, funzionale alla manovra e al carico e scarico delle merci). Tra le due quote di progetto c’è un dislivello di due metri che asseconda la preesistente ripida scarpata: i Blocchi e la Loggia si appoggiano sul livello più in alto, mentre quello sottostante è una grande piattaforma plurifunzionale di oltre 120 metri quadrati, descritta in precedenza (e che troverà la sua piena espressione funzionale dopo la Fase 2, quando ospiterà le grandi botti in acciaio inox necessarie alla produzione del vino). I due Blocchi la dominano sporgendosi leggermente a sbalzo su di essa.


10. Gli ambienti dentro e fuori i Blocchi, sotto la copertura: materiali come testo narrativo. Partiamo con una premessa: in questo progetto non viene applicato nessun colore, gli unici che si vedono sono quelli espressi propriamente dai materiali impiegati. Veniamo allora alle singole parti di cui si compone l’intera cantina.


Il Blocco 1 come detto è quasi interamente dedicato agli spazi di lavoro, pertanto non sarà un volume visitabile dal pubblico, fatta eccezione per l’ingresso col punto vendita e una piccola sala d’accoglienza. Questi spazi caratterizzano per l’appunto la facciata ovest: l’ingresso è identificato da una porta scorrevole metallica in acciaio protetto da vernice al minio, di colore arancio-rossastro, proprio come le vecchie porte metalliche che si usavano un tempo nei differenti annessi agricoli sparsi per le zone rurali. Tale colore si estende poi anche all’infisso della grande vetrata sulla sinistra dell’ingresso, che affaccia sulla sala
d’accoglienza all’interno, anch’essa quindi di quel particolare arancio-rossastro. Oltre ad illuminare naturalmente tale spazio, la vetrata può fungere anche da vetrina sulla quale mettere in mostra i prodotti alimentari dell’azienda. Per il resto il Blocco 1 si articola tra deposito, laboratorio e spazi privati di lavoro (tra cui lo spogliatoio e il servizio igienico). Descrivendo le caratteristiche dell’antica abitazione rurale, dal libro VI del De Architettura Vitruvio ricorda che “[...] vicino ci sarà la cantina del vino con le finestre a settentrione; se le avesse da un’altra parte, dove potrebbe venir riscaldata dal sole, il vino di quella cantina, disfatto dal caldo, perderebbe la sua forza [...]”.


Ebbene, fin troppo ligi a questo consiglio, il deposito progettato è un involucro completamente separato dall’esterno: non ha finestre e vi si accede dal disimpegno subito dopo l’ingresso, passando per il laboratorio. Le sue pareti interne sono completamente intonacate con argilla, materiale igroscopico – nonché proprio delle tradizioni costruttive locali che facevano spesso delle terre crude, in alternativa agli impasti di calce e sabbia, il materiale base per i loro intonaci interni ed esterni (è anche dal loro particolare cromatismo, risultato spontaneo della loro composizione fisico-chimica, che origina l’attuale distorta convinzione circa le tinte pittoriche filmogene cosiddette “di terra” da utilizzare in ambito agricolo-rurale, e non solo). Oltre al mantenimento costante del grado di umidità richiesto, l’argilla, insieme al resto del pacchetto termico dell’involucro, contribuisce al mantenimento della temperatura necessaria alla quale stoccare il vino, su indicazione dell’enologo. Per tale motivo si è preferito privare il deposito di qualsiasi apertura che non fosse la porta d’accesso, al fine di ridurre al massimo le alterazioni termiche, e di conseguenza dotarsi di un impianto tarato sugli effettivi bisogni di quello spazio così progettato, limitando i consumi energetici (e le spese) richiesti da un impianto costretto invece a climatizzare uno spazio termicamente poco performativo.


Le pareti del laboratorio, al contrario, sono piastrellate, e pertanto lavabili, fino a due metri dal pavimento (così come da prescrizioni igienico-sanitarie): questo spazio, compreso tra deposito e spazi privati di lavoro, ospita un banco lavoro con lavello e offre la possibilità di collocare almeno due cisterne di decantazione e una macchina per il packaging del vino sfuso. Anch’esso attrezzato con i dovuti impianti, non ha aperture finestrate verso l’esterno.


Infine ci sono gli spazi privati, ossia il punto vendita con la cassa, un’area di lavoro con banco, lo spogliatoio e il servizio igienico. Tutto ciò occupa la parte sud del Blocco 1, quella che si affaccia sulla valle: per tale motivo l’intera parete è realizzata con pannelli traslucidi in
policarbonato semitrasparente, con la possibilità di installare anche delle aperture finestrate. La parete così come definita lascia passare quanto più possibile la luce solare indiretta (poiché comunque in ombra grazie alla copertura soprastante), contribuendo con pochi centimetri di spessore alla coibentazione dei locali grazie alla sua struttura alveolare a camere d’aria stagne (oltre a guadagnare spazio utile). Il policarbonato traslucido e semitrasparente, prettamente un materiale industriale, suadente ed estremamente versatile, contribuisce a rinsaldare il legame col tessuto industriale di zona, anch’esso paesaggio da cui se possibile trarre ispirazione, e di cui comunque l’azienda è espressione in quanto edificio produttivo. Dai locali privati del Blocco 1 a sbalzo sopra la piattaforma due metri più in basso si potrà controllare infine anche il futuro parco delle botti in acciaio inox di trasformazione del mosto e di decantazione.


Passiamo alla descrizione del Blocco 2, ossia dell’osteria: servizio igienico a parte, è organizzata in un unico grande locale, con bancone e piccola cucina a vista sulla sala di degustazione. L’ingresso è relativamente e volutamente compresso, come a esaltare poi l’ampiezza della sala stessa. Appena entrati, sulla destra abbiamo il compatto volume del servizio igienico, accessibile a tutti i generi e tipi di utenza: oltre a comprimere l’ingresso, tale volume fa da quinta al bancone, che lascia scoprire la sua conformazione “a elle” man mano che si avanza.


Anche qui le pareti interne sono rivestite con intonaco d’argilla, ancora una volta evidente richiamo della tradizione edile rurale-contadina, così come prima spiegato. Tuttavia, l’involucro del Blocco 2 è caratterizzato anche da numerose pareti vetrate, che data la loro trasparenza fanno da contrappunto alla texture materica degli intonaci sulle pareti opache. Una parete vetrata fissa incornicia il paesaggio verso sud-est, smaterializzando quell’angolo del Blocco; una porta-finestra laterale mette in comunicazione il Blocco 2 con la Loggia, nel caso si voglia allargare la sala degustazioni all’esterno; ma è il prospetto orientato a sud- sudovest a rivoluzionare lo spazio interno al Blocco 2: tutta quella facciata è in realtà un grande infisso vetrato con struttura metallica tinteggiata al minio (come la porta d’ingresso e l’infisso del Blocco 1), interamente apribile come una porta sezionale industriale: la parete salendo e arretrando a soffitto praticamente scompare, e tale artificio annulla ogni barriera fisica tra interno ed esterno, già minata visivamente dalla trasparenza della vetrata che unisce questi due opposti anche durante i mesi freddi, proiettando direttamente l’osteria e i suoi avventori nella vigna, e facendo di questa una presenza costante e familiare all’interno dello spazio del Blocco 2.
L’interno e l’esterno sono uniti anche dalla grande scalinata in calcestruzzo che scende dalla sala degustazioni fino alla piattaforma sottostante: ancora una volta, potrà essere funzionale al lavoro così come alla convivialità, ospitando gli avventori che potranno sedersi sugli scalini di fronte ai filari.


Anche in ottemperanza dei nuovi comportamenti da rispettare e a cui adeguarsi a seguito della pandemia virale ancora in corso, si è deciso di prevedere un’uscita nettamente separata dall’ingresso, di modo da garantire un flusso unidirezionale degli avventori che entrano ed escono dall’osteria: uscendo da questa, ci si ritrova in un piazzale esterno che fronteggia il Blocco 2 verso nord, dedicato esclusivamente alla degustazione all’esterno. Sul piazzale si affaccia anche lo stesso bancone interno, attraverso una finestra aperta sempre sul prospetto nord, in modo da limitare al minimo gli spostamenti tra interno ed esterno sia degli avventori che del personale.


L’intradosso della grande copertura fa da soffitto a entrambi i Blocchi, e alla Loggia: i travetti di controventamento in acciaio stesi trasversalmente al il ritmo costante delle travi IPE (a loro volta sostenute dalle lunghe travi HEB – tutta la struttura in acciaio è semplicemente zincata, e da ciò deriva la sua naturale e conseguente colorazione), sorreggono un impalcato in tavolato di legno grezzo, non trattato con vernici od oli filmogeni, di modo da lasciar visibile non solo la sua naturale venatura della sua texture, ma il suo progressivo invecchiamento all’aria. Il legno quindi tenderà a sfumare, sbiadirsi e ingrigirsi col passare del tempo, anche in base agli agenti atmosferici che lo colpiranno, proprio come i legni utilizzati in campagna per la costruzione di ripari provvisori o pertinenze, o ancora fienili. Il tavolato, sia verso nord nello spiovente invertito, sia verso sud nello sbalzo sopra i filari, non termina con una linea netta e uniforme, ma le sue singole doghe, larghe dieci centimetri, si proiettano in avanti come le stesse travi IPE a sbalzo, ma ciascuna lo fa in maniera difforme, sfalsata e apparentemente caotica rispetto all’altra, cercando come di sfumare nel paesaggio circostante.


Il tavolato, oltre al pacchetto di copertura, ne sorregge infine il manto: una semplice lamiera zincata ondulata, opaca e non riflettente (come le travi in acciaio della struttura), stesa tra una trave IPE e l’altra, che scende dallo spiovente invertito fin quasi sopra i filari sottostanti a sud, grazie allo sbalzo. La scelta della lamiera è stata dettata sia da ragioni statiche (l’estrema leggerezza unita alla sua capacità di controventamento) che narrative: come il coppo lo è stato per l’abitazione storica del vecchio mondo rurale, così la lamiera è stata, soprattutto dal dopoguerra ad oggi, l’autentico materiale di copertura (e in molti casi anche
di rivestimento) di tutti gli accessori agricoli, o annessi, o pertinenze, o baracche, o rimesse attrezzi che hanno punteggiato e che tuttora punteggiano il paesaggio cosiddetto rurale. Non a caso caratterizzava parte della copertura della preesistente pertinenza. Prodotto industriale e seriale per eccellenza, è ancora una presenza costante e ricorrente, espressione del vero e proprio linguaggio pratico della campagna, in opposizione a qualunque travestimento pseudostorico. La sua tenace presenza, insieme a quella di altri materiali ed elementi che non staremo ora a elencare, ci ricorda che non esiste un mondo-campagna separato e idealizzato (nonostante gran parte dell’apparato normativo lavori per la sua imposizione).


La lamiera zincata è davvero un materiale che riesce a essere sintesi di questo spaccato di paesaggio così come analizzato e descritto, un paesaggio post-rurale e meccanizzato, ormai da decenni. Semplicemente, il progetto la accetta e interiorizza, rigenerandone la funzione e dandogli la dignità che riteniamo meriti. E’ possibile anche che col tempo e in avversità climatica la lamiera arrugginisca, mitigandosi cromaticamente ancor di più nel contesto; tanto meglio, varrà lo stesso discorso che abbiamo sostenuto riguardo al legno all’intradosso. Solo il tempo potrà deciderlo.


Dalla copertura saltiamo giù, ai pavimenti: tutti quanti, interni ed esterni ai Blocchi, così come quelli dei piazzali sia di lavoro che quelli dedicati esclusivamente alla convivialità sono realizzati in cemento industriale (o per meglio dire calcestruzzo industriale) opportunamente trattato. Si cercava un materiale idoneo allo scopo indicato dalla committenza, semplice e soprattutto economico: il cemento offre tali garanzie e proprio per queste caratteristiche si presta bene anche a interpretare il ruolo di materiale in grado di sostituire i vecchi pavimenti rurali della tradizione, sia interni che esterni: pavimenti pratici e dettati dalla necessità, ammattonato o pianelle quando andava bene, altrimenti in terra battura (negli esterni) o in cemento battuto (in tempi più recenti). Quindi il cemento non fa altro che portare avanti tale tradizione.


Tuttavia, come già accennato, questo materiale si ritira lasciando il campo a una differente interpretazione del pavimento e delle sue trame in prossimità del camminamento che dal parcheggio e dal Blocco 1 porta al Blocco 2...


11. Grammatica della materia: riciclo della storia, rigenerazione della memoria. Si potrebbe considerare tale camminamento come l’asse portante di un discorso sentimentale che va oltre il senso comune di guardare alle cose, ai materiali.
Come detto più volte, la nuova cantina trova posto sul vecchio sedime ancora adesso occupato dalla grande pertinenza prima descritta. Di questa ne è già stata fatta una critica articolata, riconoscendone la qualità nascosta ed intrinseca, sia materiale che immateriale, invisibile ai più. Nonostante questo, la pertinenza deve morire per lasciare posto al nuovo, e la sua demolizione ne è la condizione necessaria. Ora, questo solitamente presuppone il normale smaltimento dei rifiuti in discarica; ma c’è anche un’altra strada, quella cioè del reimpiego e del reintegro nella nuova costruzione dei materiali di risulta della demolizione. Una soluzione di per sé anche scontata, se non fosse per il modo e il fine che la muove. Occorre uno sforzo aggiunto infatti per metterli in forma in modo da generare quella che potremmo definire una sorta di mappa della memoria, o un micro atlante sentimentale legato al luogo in questione e alla sua storia.


Il riutilizzo dei frammenti e degli elementi prelevati da altre costruzioni non è di certo una novità nella storia dell’architettura, anzi si potrebbe dire che ha una tradizione molto antica, iniziata almeno in Occidente in maniera sistematica forse fin dalla vittoria del mondo cristiano su quello pagano. Il periodo paleocristiano, poi altomedievale, fino al Romanico, ne annovera l’incredibile produzione: riutilizzo sicuramente ai fini pratici ed immediati, ma anche simbolici, spesso ribaltandone il senso.


Tuttavia, è in epoca moderna che troviamo uno degli esempi architettonici di maggior spessore poetico e narrativo: nei percorsi pedonali attorno all’Acropoli di Atene progettati da Dimitri Pikionis negli anni Cinquanta. Pensati già a partire degli anni Trenta – architettura del paesaggio quando questa non era ancora una disciplina ben definita –, anche in questo caso anticipano di molto la cosiddetta Land Art, e da un certo punto di vista la superano poiché vanno oltre la sfera estetica e quella propria dell’elaborazione concettuale, arrivando ad abbracciare attraverso un unico segno il passato e il futuro (di un popolo, di un mondo), resi coesistenti sullo stesso piano spaziotemporale.


L’intero lavoro di Pikionis è complesso, e inscindibile dalla traiettoria storica del popolo greco: dopo la diaspora c’era da ricucire pezzo dopo pezzo quello che restava di un passato denso e stratificato, in modo da poter inventare un futuro.
Nei percorsi attorno all’Acropoli, utilizzando i frammenti ritrovati, ricucendo e accostando pezzi di marmo grezzo, vecchi reperti archeologici, pietre dell’Attica, brani architettonici apparentemente irregolari ma funzionali al suo progetto, lavora alla ricomposizione della memoria. Ma in questo lavoro non c’è nessuna smania filologica da archivista, nessuna pretesa di mettere ordine nel caos della storia greca, allineando cronologicamente tutti i frammenti ritrovati lungo un percorso netto, chiaro e riconoscibile che riporti l’ordine anche
nella testa di chi li percorre. Pertanto ricorre all’arte astratta per generare un nuovo immaginario: “quella di Pikionis più che geometria è geodesia. I suoi selciati, trama frantumata di scaglie dell’Imetto e di Pentelico, somigliano ad incrinature di specchi, reticoli di fratture craniche, lama affondata sul dorso rinsecchito della Grecia: strappi, fenditure, spiragli da cui riesce a filtrare un barbaglio intermittente di verità, celata sin lì dagli strati sottocutanei della Gran Madre. Resta indistinguibile, sfumato sullo sfondo, il contorno della linea di confine tra antico e moderno, fra passato e presente, come di barlume crepuscolare, interscambiabile: preludio all’annottare ma anche simultaneo albore antelucano. Pikionis, appassionato di geologia, maneggia quelle sacre pietre di Grecia, quasi accarezzasse costole e tibie, le ossa della terra. Deucalione dei nostri tempi, dissemina di sassi il suo passaggio, ripopolando l’Attica di presenze fantasmatiche”. (Renato Santoro)


Lasciamo l’Attica e torniamo al nostro progetto: siamo in un piccolo angolo della media Vallesina, nello sprawl tutto postmezzadro in bilico tra la città e la campagna, e non c’è nessuna acropoli a cui tendere, come non c’è nessun popolo a cui riferirsi. Ma ciò non significa che il discorso pensato da Pikionis non sia di per sé invariante, e anch’esso riciclabile in altra situazione.


Quello che c’è, su questo piccolo poggio sospeso sulla valle, è quanto descritto fino a qui: immagine e sostanza di tutto il lavoro morto realizzato da persone che non ci sono più, ma che hanno lasciato lì, impressa sulla e con la materia la loro traccia. Nel suo piccolo, è la premessa concreta per arrivare a costruire quell’atlante sentimentale di cui la cantina vuole riappropriarsi per andare avanti.


Ecco allora che letteralmente i pezzi di pietra, o mattoni, o forati industriali, o coppi antichi, o blocchi di calcestruzzo o vecchie e logore travi in legno, tutti elementi di differenti momenti storici ma tutti di pari dignità d’uso, vengono recuperati, riciclati e reimpiegati anche a fini differenti da quelli per cui erano stati pensati. Messi a terra, affioranti dal calcestruzzo nel quale sono stati immersi per comporre il selciato di quel tragitto, breve nello spazio lineare ma carico di senso nella sua dimensione affettiva, eccoli rigenerarsi a nuova vita, in discontinuità formale e funzionale rispetto al passato, a dar fondamento al futuro.


E il discorso poi prosegue, contagiando anche l’involucro del Blocco 1: tolte le parti trasparenti già descritte, si presenta al visitatore come un volume monolitico interamente rivestito di tutti quei brani materici ed elementi architettonici che compongono il selciato di cui sopra. Difficile descriverne l’immagine, data la sua imprevedibilità formale: rivestito della
sua stessa storia recente, il Blocco 1 della cantina, presentandosi per primo al pubblico, gli denuncia immediatamente i suoi intenti.


Una soluzione del genere ovviamente non è di per sé una novità, ma è solo negli ultimi anni che è stata per così dire resa consueta, anche grazie al lavoro dell’architetto cinese Wang Shu, premio Pritzker nel 2014. Coi suoi progetti è riuscito a rigenerare un mondo e un modo millenario di costruire che si stava estinguendo sotto i colpi della modernizzazione urbana spinta dal mercato, riciclandolo nel senso e nell’aspetto. Il secolare metodo da lui adoperato e aggiornato viene definito wa pan, che significa letteralmente “riuso dei materiali esistenti”. Esempio eclatante ne è il Museo di Storia Ningbo a Yinzhou, che segna un cambio di rotta nella produzione architettonica di quel paese: un’enorme massa sfaccettata e leggermente decostruita, riflesso architettonico del paesaggio naturale offerto dalle gole e dalle montagne circostanti, resa al contempo austera e sfumata nell’ambiente dall’involucro realizzato appunto con la tecnica del wa pan, derivato dalla demolizione di villaggi antichi anche distanti dal sito del museo. Sulle sue facciate capita di ritrovare frammenti di materia e memoria risalenti a tutte le epoche e le dinastie che si sono succedute nei secoli.


Lasciamo la Cina e torniamo ancora una volta al nostro progetto: l’involucro così composto trasforma un materiale di scarto, destinato alla discarica, in un vero e proprio testo narrativo su cui leggere la storia di quel posto e afferrarne la memoria. Vibrante e ricco di sfumature e di segni, risultato dell’incontro tra vecchi materiali della tradizione e tecnologie contemporanee, collega indirettamente anche la cantina col suo retroterra storico, senza scadere in un facile quanto impossibile mimetismo tipologico, ossia in un’inevitabile falsificazione della storia.


C’è una parte dell’involucro poi che funge da raccordo tra la scatola a pianta quadrata del Blocco 1 così rivestita e la copertura in acciaio e legno soprastante; ha una sagoma dettata dalla struttura obliqua d’appoggio delle travi IPE e il suo rivestimento recupera e reinterpreta un classico della tradizione e consuetudine costruttiva locale, ma anche nazionale: l’intonaco cementizio cosiddetto “sbreccinato”. Vero tratto distintivo di ogni costruzione agricola-rurale dal dopoguerra ad oggi, espressione di parsimonia e austerità (e risparmio): intonachi del genere, dalla texture marcata e rugosa, resi ancora più movimentati nell’aspetto dai differenti ritiri cromatici del cemento, caratterizzati fortemente dalla mano che li esegue, rappresentano un bagaglio tecnico e pratico così diffuso che già in
tempi non sospetti sono stati per così dire nobilitati anche da Carlo Scarpa, basti pensare alla moltitudine di parametri murari così trattati nel Museo di Castelvecchio a Verona.
Il Blocco 2, invece, in questa sua parte di raccordo sostituisce la tamponatura opaca semplicemente intonacata a cemento grezzo con infissi apribili, che insieme alle pareti fisse e mobili vetrate già descritte lo gettano in una luce diffusa a trecentosessanta gradi.


Realizzata soltanto durante la Fase 2 della costruzione, l’involucro dell’osteria fa a meno del rivestimento così come pensato e descritto per il Blocco 1, optando invece per una soluzione contemporanea nell’impego quanto popolare nel materiale: una cortina di mattoni forati e trafilati industrialmente. La cosiddetta “foratella” – quella qui presa in considerazione è la “21 fori” – non ha bisogno di troppe presentazioni: emblema della tradizione costruttiva nazionale, la si ritrova praticamente ovunque, declinata in ogni maniera. Come la sorella lamiera, punteggia il paesaggio locale tamponando capannoni e fienili, case incompiute e annessi, colorandolo però con quelle tenui sfumature che vanno dal giallognolo all’arancio- rossastro – paesaggio cheapscape nostrano.


Il mattone forato parla davvero una lingua popolare, e il progetto si propone di utilizzarlo proprio per questo motivo, inserendolo però in quel discorso più ampio sui segni del paesaggio affrontato in precedenza, e allontanandolo quindi dal rischioso baratro del provincialismo in cui è fin troppo facile scivolare maneggiando un materiale del genere. Proprio per evitare ciò a ogni forato viene in pratica detournata la funzione, tagliandolo verticalmente in due con una sega ad acqua, proprio a metà della camera d’aria centrale; ogni pezzo così ottenuto viene poi murato incollandolo sul lato esterno, lasciando quindi alla vista la superficie che prima era interna. Il taglio procura a ogni pezzo una serie di scanalature e di “denti” verticali, e così facendo è come se il Blocco 2 fosse rivestito da tante formelle in laterizio con profilo a pettine, tutte allineate tra loro e con i profili di questi “denti” e tutte le scanalature a formare quel particolare decoro plastico che esprime al massimo se stesso quando viene investito dalla luce diretta. La parete diventa luogo dell’architettura: ecco che allora riappaiono in facciata tutte quelle linee nette e quei segni esaltati dal gioco di contrasti tra la luce e l’ombra che tanto ossessionavano Giacomelli, e che ancora una volta connettono nuovamente il particolare di un muro di una nuova cantina sospesa sopra una vigna, al generale del paesaggio circostante, ricucendone la trama.


 


Gabriele Marinelli, architetto


Jesi, febbraio 2022


 

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    Dioniso rising. Il racconto della cantina Capriotti.   Progetto architettonico: Gabriele Marinelli, architetto. Collaboratori al progetto architettonico: Carlo Marinelli, geometra; Cristiano Campolucci, ingegnere. Programma: Realizzazione in due fasi di una cantina vinicola. Committente: Società Agricola Capriotti Calendario: 2020 (affidamento dell’incarico) – in corso Luogo: via San Filippo, Castelplanio, Ancona. Coordinate geografiche:...

    Project details
    • Year 2022
    • Status Current works
    • Type Corporate Headquarters / Factories / Industrial facilities / Showrooms/Shops / Tourist Facilities / Bars/Cafés / Pubs/Wineries / Restaurants / Interior Design / Custom Furniture / Lighting Design / Wineries and distilleries / Markets / Warehouses / Structural Consolidation / Recovery of industrial buildings / Art studios/workshops / Furniture design / Product design / self-production design / Building Recovery and Renewal
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