Memoria significa conoscere. Rappresenta la capacità umana di fare proprie determinate esperienze e di richiamarle al momento opportuno.
In Architettura è impensabile agire in un luogo senza conoscerne la storia, il passato.
Memoria in architettura, dunque, significa conoscere un luogo. Studiarlo, analizzarlo e desumere dal contesto alcune indicazioni, suggestioni per poi poterci operare. Non basta questo ovviamente per progettare, c’è bisogno di un’imposizione. L’architetto ha il compito di imporre una scelta, un oggetto da aggiungere al contesto, un’ulteriore scrittura su un palinsesto già stratificato. Dopo aver studiato la storia l’Architetto è chiamato ad aggiungerne un pezzo.
Nel nostro modo di essere uomini il tema della memoria non è semplice.
Come sosteneva Nietzesche la storia può essere utile o dannosa. Utile quando la conoscenza delle epoche passate viene usata per guidare la nostra azione presente; dannosa nel momento in cui si vive con lo sguardo rivolto al passato e non si costruisce il futuro.
Un eccesso di memoria, intesa come celebrazione del passato, ci rende schiavi di ciò che è stato, ci paralizza. Allo stesso tempo non conoscere la storia ci rende ignari di dove agiamo, portandoci a fare scelte avulse dal contesto.
La scelta migliore sembrerebbe quella intermedia, che difficilmente si è raggiunta nel contesto italiano, di natura fortemente ideologica e campanilistica, che tende a dividersi in due su ogni questione (Coppi o Bartali, Sofia Loren o Gina Lollobrigida) allontanandosi da un giusto compromesso.
Spesso in Italia si sono confrontati movimenti che contrapponevano una diversa visione della memoria.
Durante il Fascismo, da un lato c’era il senso del passato come elemento di confronto portato avanti dalla Metafisica di De Chirico, Carrà e Sironi, dall’altro il Futurismo di Marinetti, Balla e Boccioni.
La Metafisica ha prodotto arte di grande interesse avendo come fulcro un forte senso della cultura e della tradizione italiana.
I quadri di De Chirico mettono al centro il paesaggio italiano, con i suoi scorci e le sue prospettive, e rendono la figura umana poca cosa rispetto alla maestosità del contesto architettonico in cui si trova.
La città italiana diventa elemento di celebrazione ma ciò, inevitabilmente, frena lo slancio verso la modernità. Se altrove Picasso dipingeva Guernica, in Italia Carrà riscopre la pittura del Rinascimento, attuando, dunque, una rivisitazione del passato.
Contrapposto alla Metafisica, il Futurismo celebra la “città che sale”, le centrali elettriche, le dighe, le macchine. In una parola: il progresso. Il Futurismo parla di un costante rinnovamento dell’ambiente architettonico che vedrà ogni generazione fabbricarsi la propria città, senza dover copiare quelle precedenti.
Questa corrente artistica azzera totalmente la memoria, di cui l’Italia è pregna, in favore di una visione esclusivamente al futuro. “Uccidiamo il chiaro di Luna” sosteneva Marinetti.
Questa contrapposizione rispetto alla memoria ritorna in un altro periodo storico: il Dopoguerra.
Dopo il conflitto mondiale c’è stata una radicale revisione dei temi della modernità.
Il progresso viene messo in discussione, perché aveva prodotto macchine di distruzione e morte. In risposta a questo tipo di sensibilità nuova nasce il Neoliberty, un movimento architettonico ispirato alle esperienze del passato. Alcuni esempi sono la casa Cicogna di Gardella a Venezia o la Torre Velasca a Milano.
Secondo Reyner Banham il Neoliberty ha rappresentato la ritirata italiana dall’architettura moderna.
Un altro tipo di risposta è arrivata dal Neorealismo, che prende spunto dall’esperienza cinematografica e che si traduce nella volontà di superare il complesso dell’architettura italiana rispetto alla tradizione, cercando di utilizzare strumenti nuovi per ricreare la vita del borgo. L’esperienza del Neorealismo si manifesta soprattutto nei progetti per l’INA CASA, con l’esempio particolare del Tiburtino realizzato da Ludovico Quaroni. Il quale, alcuni anni dopo, lo definirà il “Paese dei barocchi”.
Anche nelle scuole di Architettura era forte questo contrasto. A Valle Giulia si contrapponevano due personaggi che interpretavano in modo diverso la Storia: Bruno Zevi e Paolo Portoghesi.
Zevi, fondatore della rivista “L’Architettura. Cronache e storia”, portava avanti un pensiero anticlassico, in favore di un’Architettura “della libertà, rischiosa, antiidolatrica e creativa”. Portoghesi, invece, proponeva un ritorno alle forme antiche, da riprendere e adattare al contesto contemporaneo. Il tempio diventava un abaco di elementi grammaticali con cui costruire il linguaggio della modernità.
Nel corso degli anni si sono perse molte di queste contrapposizioni, perché si è persa l’identità dell’Architettura italiana. C’è chi afferma esista uno stile globale, appartenente al mondo e non più ad un singolo paese, e chi invece sostiene l’esistenza di una cifra stilistica locale, che porta avanti la tradizione del nostro paese. È un ragionamento lungo e difficile, ancor di più affrontato adesso, in un periodo di crisi della materia, dove l’Architettura non trova occasioni, né consensi, per esprimersi.
Possiamo chiederci allora cosa rimarrà nella memoria collettiva della contemporaneità italica.
Non più un movimento, che trovava dinamismo anche nelle contrapposizioni, ma episodi singoli e isolate personalità, che affermano un loro percorso individuale più che un ampio ragionamento sul linguaggio architettonico italiano.
Analisi sintetica, ma efficace e condivisibile.
Complimenti!Un riassunto ben fatto purtroppo mi sembra che arrivi però ad una conclusione piuttosto sconsolante.