Mugugno

Un locale anonimo in un palazzo di pietra nel cuore di Genova. Un luogo pedonale con potenzialità di contaminazione immense ripensato totalmente che esprimesse il carattere della città e contemporaneamente fosse fortemente identificabile. L’immagine e il segno costituiscono un fil rouge in grado di restituire ordine alla complessità richiesta. Mugugno. Il lamento sordo trasformato in estetica del malcontento, ovvero l’anima di una città come Genova.  Esaltando le connessioni e i cortocircuiti propri di uno spazio collettivo si è impostata una sorta di microurbanistica che intuisse e dirigesse i comportamenti dei fruitori. Con due vetrate completamente apribili, lo spazio interno e quello esterno risultano collegati fisicamente ma anche storicamente all’uso ormai perduto dei portici, confine sfuocato tra spazio interno e città collettiva.

Anche il metodo progettuale non è stato tradizionale, diventando la messa progressiva in visione dell’idea. Coniugare esigenze funzionali ed estetiche come viatico al puro piacere della ristorazione intesa in senso quasi etimologico. La cura dei particolari, dove niente è stato lasciato al caso, trasforma virgole mani e forchette in maniglie, persuadendo alla soddisfazione giocosa del desiderio. Alcuni tavolini piegandosi scompaiono, assecondando le esigenze dei diversi orari di gestione.

Un’architettura come indotto al comportamento e l’architetto come barman che mescola ingredienti diversi. La forchetta del logo sconfina dall’insegna e contrasta il sottovoce di una città che da sempre si nasconde, diventa un punto esclamativo che afferma la funzione del locale senza che questa venga in alcun modo dichiarata. Perché la ristorazione è anche dare forma a un desiderio di relazione sociale. Riscoprire le pietre, le grate e i segni della storia del locale è stato un modo di raccontarne l’anima, stimolando l’occhio, il cervello e la gola di chi passando davanti sia costretto a qualcosa di diverso dal mero attraversamento dello spazio.