TRAMA PESANTE

"la creatività è la risposta che apre" Aldo Carotenuto

by Leonardo Matassoni
0
0 Love 291 Visits

A Los Angeles, accanto alla Walt Disney Concert Hall di Gehry  e di fronte al MOCA di Isozaki sorge il nuovissimo Broad Museum, costruito su progetto di Diller Scofidio + Renfro e ormai pronto per l’apertura ufficiale proprio in questi giorni (prevista per il 20 settembre). Le foto che già circolano in rete, consentono di farsi un’idea abbastanza precisa di questa architettura, la cui cifra distintiva è costituita senz’altro dall’iconico involucro scatolare bianco e traforato che la ricopre, già entrato nell'immaginario collettivo con il nomignolo di "grattugia"!

Esternamente il nuovo Broad si configura come un volume stereometrico interrotto solo dal sollevamento diagonale degli angoli, laddove la sua orditura obliqua genera i varchi d’ingresso costituiti da pareti vetrate arretrate dal filo della facciata. Dallo spazio di distribuzione interno al quale si accede, si procede poi verso il piano superiore con scale di vario genere che attraversano tunnel “scavati” in una massa grigia dalle forme plastiche che costituisce la base solida dell’edificio in cui sono ricavati gli ambienti funzionali per i magazzini, gli archivi e gli uffici. Formalmente il blocco della base è una evidente metafora di un antro naturale e infatti, ricorda da vicino le stazioni della metropolitana di Stoccolma che sono state scavate nella roccia lasciata in vista.

Salendo attraverso questo paesaggio artificiale dunque, ci si ritrova nello spazio dedicato alle esposizioni dal carattere completamente diverso, inondato com'è dalla luce che filtra attraverso il guscio esterno; il cosiddetto “velo”.

 l'involucro del Broad visto dal lato della Disney Concert Hall - immagine dall'album di Bahooka

soluzione d'angolo - immagine dall'album di Jay Sterling Austin

dettaglio del "velo" con la sua trama obliqua - immagine dall'album di Jay Sterling Austin

 

La sua trama obliqua palesa l’intento dei progettisti di conferire al volume compatto, di per sé statico, un certo dinamismo anche a costo di una notevole complessità costruttiva ma, sarà perché questa geometria rimane limitata al solo piano bidimensionale o forse  semplicemente perché  tende a prevalere la compattezza del volume, non sembra che da questo punto di vista questa strategia linguistica sia stata granché efficace limitandosi ad un effetto quasi solo grafico.

l'Architettura della Walt Disney Concert Hall a fianco del nuovo Broad Museum - immagine dall'album di Jay Sterling Austin

 

In ogni caso l'idea stessa del "velo" dichiara un'intenzione di leggerezza e trasparenza ma, l'involucro traforato e autoportante (la sala espositiva è priva di pilastri), fatalmente, non è così leggero come nelle immagini virtuali di progetto.

L’area espositiva interna libera è la parte migliore; è uno spazio molto bello, miesiano, razionale e illuminato intensamente ed uniformemente grazie all’effetto diffusore dell’involucro, il cui “apparato”, pur svolgendo molto bene il compito, comunque non raggiunge la raffinatezza formale e tecnologica con la quale Piano risolve usualmente questo tipo di tema progettuale. Tuttavia la scelta di trattare nello stesso modo sia l'involucro di parete che quello di copertura, senza soluzione di continuità come una trama tessile ripiegata, riesce a far sì che si crei un’atmosfera astratta, leggermente estraniante e surreale, che probabilmente è la condizione psicologica ideale per valorizzare gli oggetti artistici esposti: senza dubbio l’intuizione migliore del progetto!

Aldilà delle grandi differenze linguistiche alcuni elementi dell’edificio richiamano alla mente la “Beinecke rare book & manuscript library” completata a Yale nel 1963 da Gordon Bunshaft.

Anche la biblioteca infatti fu pensata come un involucro prismatico (brutalista) autoportante che lasciasse filtrare la luce (pochissima in questo caso, data la delicatezza dei libri)  in modo uniforme e calibrato,  una scatola rovesciata a contenere il suo spazio interno.

Beinecke Library, costruita da Gordon Bunshaft nel 1963 a Yale - immagine dall'album di Henry Trotter

 

Qui la maggiore pesantezza dell’involucro è in parte compensata dalla sua sospensione sui quattro grandi supporti puntuali posizionati agli angoli.

Tutto ciò offre lo spunto per rilevare che una simile sospensione e la conseguente permeabilità totale al livello del suolo, purtroppo, mancano al progetto del Broad che invece ne avrebbe tratto un grande beneficio per due aspetti fondamentali.

Il primo, di ordine espressivo, consiste nel fatto che affondare l’involucro prismatico nel terreno  in corrispondenza dei punti d’appoggio, lo appesantisce notevolmente e genera una “soluzione spuria” che ne frustra la pretesa attitudine alla leggerezza. Il secondo, molto più importante, è di ordine psicologico e sociale ed è stato compreso perfettamente e recepito come elemento basilare da Koolhaas nella sua proposta per questo museo.

Il progetto di OMA infatti, prevedeva il sollevamento dell’intero volume su una piazza pubblica dalla quale sarebbe iniziato il percorso museale. Non solo; le immagini virtuali del progetto mettono bene in evidenza la volontà di creare rapporti e relazioni di reciprocità tra le attività museali e la piazza, ossia la città,  grazie allo spazio "a tutta altezza" all’interno del quale Koolhaas dispone liberamente i collegamenti verticali. In altre parole questo grande atrio vuoto avrebbe consentito la visibilità diretta e reciproca tra alcuni spazi museali e quelli pubblici sottostanti innescando quella stimolante situazione psicologica che induce all’esperienza dinamica dello spazio. La piazza inoltre, sarebbe stata caratterizzata dalla speciale tensione generata dalla compressione tra i due piani (la superficie della piazza ed il volume sospeso del museo) e vitalizzata dalle attività museali.  Insomma il punto fondamentale è che mentre il progetto di Koolhaas proponeva una soluzione architettonica “aperta”, quella realizzata non lo è affatto e, a nostro avviso, sottende l’idea in parte superata, di istituzione culturale non inclusiva rispetto alla vita cittadina che si traduce in una soluzione architettonica, in fondo, un po’ ordinaria se valutata nell’ambito delle opere di questa importanza.

Tutto ciò ci ricorda che se l’architettura è sufficientemente acuta da cogliere quella meta-dimensione psicologica che agisce ad un livello profondo di percezione, può davvero avere ancora una funzione salvifica nella città! Purché si sia abbastanza perspicaci da poterla riconoscere e scegliere!

 

 

 

Comments
    comment
    user
    Author