ARTE IN EQUILIBRIO

Riflessioni sui percorsi mentali della creatività

by Leonardo Matassoni
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http://leonardomatassoni.vpost.it/2012/06/arte-equilibrio/

 

 

 

” Per me fare arte è un atto di libertà che si deve compiere senza tradire se stessi per avere successo”

Arnaldo Pomodoro

 

 

Intorno alla figura dell’architetto circolano molti luoghi comuni, spesso fuorvianti.

Si tende a considerarlo un “creativo” alla stregua di un artista come può esserlo uno scultore per esempio, con cui tra l’altro, vi sono sicuramente molti punti in comune. Ma si tratta di una semplificazione eccessiva.

A parte la mia personale antipatia per la definizione inflazionata di “artista” o di “creativo”, posso dire che l’architettura è un’arte complessa e che quella dell’architetto è sicuramente una figura ibrida perché oltre a dover trovare, com’è nella sua natura, l’ispirazione iniziale, la visione da cui inizia il progetto, deve operare come un regista, gestendo le molte e diverse figure che partecipano a questa forma d’arte sociale, sintetizzando in sé varie competenze professionali senza mai perdere la visione d’insieme. L’inizio è vero, è come una visione poetica, un sogno fatto ad occhi aperti, una sorta di ologramma, come lo definisce Renzo Piano, qualcosa cioè di estremamente delicato e sfuggente che per potersi trasformare in realtà esige grande perseveranza da parte dell’architetto; egli infatti deve essere estremamente caparbio e armato di una forza di volontà non basata sulla cocciutaggine ottusa, ma sulla consapevolezza e deve anche essere pronto a tornare indietro da una strada, eventualmente non convincente, o ad accogliere le buone idee altrui all’occorrenza cambiando anche la propria e soprattutto, dev’essere mosso da una grande passione!

All’inizio  prevalgono i processi mentali di tipo introspettivo e di astrazione pura e il lavoro dell’architetto, a tratti, assomiglia  a quello di uno scrittore che si immerge nel proprio spazio interiore lavorando in solitario, ma subito dopo però, viene tutto condiviso  e valutato insieme ; il momento dell’ispirazione è quasi contemporaneo alla catena di pensieri, di tipo razionale, che essa mette in moto. Non appena l’idea portante emerge infatti, il pensiero va automaticamente verso considerazioni di tipo tecnico e tecnologico che possono già essere discusse per indagarne le potenzialità e la realizzabilità, attingendo ad un’esperienza del fare che ha molto a che vedere con quella dell’artigiano all’opera nella sua bottega. Il contatto con questo mondo e magari anche una certa, concreta esperienza manuale, costituisce dunque un bagaglio di importanza impagabile per l’architetto, consentendogli di acquisire quella sorta di “sensibilità per i materiali” e per le tecniche di lavorazione, potremmo dire quel “senso della struttura della materia” che si può avere solo maneggiandola.

La fase iniziale e più creativa ovviamente, non può prescindere dal programma funzionale nel rispetto del quale si deve operare; ma esso non costituisce un impedimento, anzi, insieme a tutti gli altri vincoli di tipo fisico – morfologico, climatico, normativo, soggettivo ecc. ecc. che variano a seconda dei casi, costituisce una sorta di substrato, sul quale poter impostare il lavoro e nel contempo, una sfida di fronte alla quale l’architetto non deve arretrare. Molto spesso è proprio da questa sorta di trama che scaturisce l’idea di base su cui verrà impostato tutto.

Quindi i vincoli iniziali finiscono per trasformarsi da apparenti ostacoli, in elementi di definizione di uno spazio mentale inizialmente amorfo in cui l’idea può prendere forma e in uno spazio fisico, altrimenti privo di indicazioni e più difficile da interpretare; in tutto ciò, trovare lo spunto poetico sta all’architetto e dipende solamente dalla sua caratura in quanto tale! Anche la flessibilità, nelle prime fasi del lavoro, è molto importante per non rischiare di investire energie e tempo in un’idea che potrebbe apparire seducente prima, ma che poi, potrebbe non risultare abbastanza incisiva.

Insomma è necessario un certo tempo di maturazione, per così dire.

Oltre al tempo materiale necessario al processo produttivo in senso stretto, l’architettura richiede il tempo necessario affinché l’ispirazione possa subire un processo di decantazione volto a valutarne le potenzialità a freddo, cioè dopo che l’infatuazione iniziale è ormai svanita. Una volta riconosciuta la giusta via da percorrere  sulla base di una sorta di “fiuto”, che io ritengo sia innato e semmai, solamente affinato e addestrato dall’esperienza (architetti, secondo me, più che altro si nasce), si procede con le fasi successive nelle quali, il processo mentale si sposta continuamente dalla sfera dell’immaginario e dell’astrazione pura, a quella prettamente razionale, con continui rimbalzi tra queste due sponde opposte, mettendo in campo tutto e proseguendo così fino alla fine. Entrano in gioco, contemporaneamente tutti gli elementi, da quelli scientifici come le tecniche costruttive e le tecnologie, a volte anche molto complesse e ormai quasi sempre messe a punto con l’ausilio di specialisti, alle risorse disponibili, economiche ma anche umane, da considerazioni di buon senso in merito alla sostenibilità ecologica o alla vocazione produttiva di un territorio e dei suoi artigiani, alla normativa, ma tenendo sempre presente l’elemento immaginifico per salvaguardare la massima coerenza possibile con l’idea iniziale. Si tratta di una fase complessa e caratterizzata da una certa caoticità, che richiede all’architetto un’impostazione del lavoro di tipo registico e competenze generaliste oltrechè specialistiche, ma anche una certa dose di autodisciplina e attitudini da psicologo necessarie sia per “progettare la reazione emotiva” dei fruitori all’oggetto architettonico, che, più banalmente, per gestire i rapporti interpersonali tra tutti coloro che entrano in gioco.

Ma l’elemento forse più destabilizzante e refrattario ad ogni controllo, spesso, deriva proprio dall’esuberanza dell’immaginazione prolifica di un architetto talentuoso, trascinata com’è, dall’entusiasmo e dal piacere di fare; essa tenderebbe a mettere insieme tutti gli spunti progettuali possibili, che sarebbero decisamente troppi! Questa esuberanza perciò, deve essere domata e incanalata, anche se non troppo, per non rischiare di compromettere la chiarezza del messaggio dell’architettura.

 In altre parole, tendere verso il miglior progetto possibile, presuppone anche questa autodisciplina, che solitamente, si vuole essere raggiunta dagli architetti solo maturando, questo sì, una certa esperienza che possa consentire loro di dominare il proprio istinto attraverso un lavoro di ponderato e paziente controllo ed eventualmente, di filtro e scarto,  evitando così gli eccessi e la conseguente confusione linguistica che distrarrebbero dagli elementi essenziali smorzando la forza espressiva dell’opera. Il messaggio poetico, l’idea portante dell’architettura, dovrebbe essere sempre il più possibile chiara e prevalente sulle altre, le quali tutt’al più, possono coesistervi ma solo se sottoposte alle regole di una gerarchia che le subordina ad essa attraverso lo sviluppo di sotto – temi.

In questo, più che per ogni altra cosa, penso che l’architettura abbia davvero molti punti in comune con la composizione musicale.

Autodisciplina dunque per amplificare la forza comunicativa dell’architettura, chiarirne il suono, renderla più incisiva! Allora, “less is more” come diceva il grande Mies, tanto più per un’arte  sempre in delicato equilibrio qual’è l’architettura.

 

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