IL NON-LUOGO MONUMENTO NEL PAESAGGIO | Bruno Lapira

Ampliamento e ristrutturazione dell'aeroporto "Pio La Torre" di Comiso (RG) Comiso / Italy / 2012

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“Il residuo deriva dall’abbandono di un terreno precedentemente sfruttato. La sua origine è molteplice: agricola, industriale, urbana, turistica etc”. Questa definizione di Gilles Clément, contenuta all’interno del Manifesto del Terzo Paesaggio, meglio di ogni altra riesce a definire, o più opportunamente, a qualificare l’area del nuovo aeroporto di Comiso. Come abbiamo visto nel primo capitolo, nel corso di quasi ottant’anni, quest’area ha subito diverse trasformazioni, dopo essere stata abbandonata e riutilizzata a più riprese. Scrive ancora Clément: “il residuo è tributario di un modo di gestione ma deriva più in generale dal principio di organizzazione razionale del territorio, in quanto spazio abbandonato”. Il nuovo aeroporto nasce all’interno di una ex base NATO, della quale rimangono intatte e visibili, seppur abbandonate e degradate, tutte le sue parti: si potrebbero quindi considerare residui in quanto testimonianze di un periodo storico della modernità. I progettisti di questa nuova struttura hanno deciso di adattare le infrastrutture di supporto a ciò che già esisteva: l’ex base avieri, il cine-teatro, la chiesa, gli alloggi dei militari. Il risultato però comporta una sensazione di straniamento, forse anche perché l’aeroporto non è ancora in funzione. Si ha come l’impressione di vagare in uno di quei villaggi fantasma del Far West americano: un luogo assolutamente anonimo, senza carattere proprio. Si sente la necessità che quest’area, dopo essere stata sfruttata e abbandonata, si proponga, attraverso un progetto di riqualificazione che trasformi l’aeroporto - uno dei non-luoghi per eccellenza così come vengono definiti da Marc Augé - in un luogo. Cosa è invece un non-luogo? “Un non-luogo è uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico”. Se l’aerostazione, così com’è, fosse in pieno regime di funzionamento, sarebbe uno spazio in cui migliaia di persone, ogni giorno, si incrocerebbero senza entrare in relazione, dove a regnare sarebbe la frenesia e l’andare di fretta: questo perché non esistono degli spazi di relazione o perché, alla visione di un ampio parcheggio o di edifici dalle facciate scrostate e dai colori spenti, si preferiscono le sale d’attesa all’imbarco dei voli o i tavolini di un bar. Questa operazione è senza dubbio molto difficile, anche perché sarebbe arduo conferire il carattere di luogo ad un posto in cui transitano migliaia di passeggeri provenienti da ogni parte d’Italia e del mondo. Si potrebbe guardare alla soluzione di Bjarke Ingels per il SUperKilen di Copenaghen: la differenza col nostro caso, sta’ nel fatto che quel parco multiculturale progettato dall’architetto danese è inserito all’interno di un quartiere multietnico, dove la gente vive e non è di passaggio. L’operazione interessante potrebbe essere quella di dare valore all’aeroporto e all’area in cui esso si trova attraverso un intervento di monumentalizzazione dell’infrastruttura: il non-luogo diventa monumento. Cosa significa monumento? Aldo Rossi lo definisce come “passato che sperimentiamo ancora”. L’etimologia del vocabolo indica “un’opera architettonica di grande valore artistico e storico, eretta a ricordo di qualcosa o qualcuno”. Inoltre, definizione particolarmente interessante: “monumenti possono essere indicati anche dei luoghi naturali di particolare bellezza o interesse scientifico”. Basterebbe questa interpretazione per guardare il panorama attorno all’aeroporto e capire che esso si trova all’interno di un monumento naturale quali sono i monti Iblei. “Fin dall’antichità il genius loci, lo spirito del luogo, è stato considerato come quella realtà concreta che l’uomo affronta nella vita quotidiana. […] Compito dell’architettura è quello di creare luoghi significativi per aiutare l’uomo ad abitare 26 ”. Questo brano di Christian Norberg-Schulz è la premessa culturale di tutto il lavoro: attraverso l’ambiente circostante, fare dell’intero sistema un monumento. All’ingresso dell’aerostazione è presente un mosaico in cui campeggia la scritta “Aeroporto degli Iblei, Pio La Torre”. Più che il nome del deputato comunista, ucciso nel 1982 per il suo grande impegno a favore dell’antimafia, a colpirmi è stata proprio la denominazione di Aeroporto degli Iblei. Come fare perché il carattere ibleo risulti riconoscibile all’interno di quest’area? Praticando quel gioco degli scambi di cui scrive Gilles Clément: “creare un gioco degli scambi con l’ambiente circostante attraverso una pressione debole del territorio antropizzato a vantaggio di una pressione forte da parte del paesaggio”. Come concretizzare questa pressione da parte del paesaggio? A tal proposito, tra le ricerche effettuate, ho trovato molto interessante un lavoro fatto dall’architetto anglo-irachena Zaha Hadid per il progetto del nuovo aeroporto di Zagabria, in Croazia: davanti al terminal passeggeri, per dividere la zona dei viaggiatori in partenza e in arrivo da quella degli uffici e degli alberghi, ha progettato un grande parco con un parcheggio sotterraneo. Guardando dall’alto i monti Iblei è possibile osservare molte zone in cui sono presenti boschi più o meno estesi: sono quasi dei parchi collegati tra loro. Analizzando le cartografie di tutto il territorio ibleo, sono andato a ridisegnare le parti in cui sono presenti questi boschi, inclusi i rilievi sui quali essi sorgono; ho così trasferito, adattandola, quella morfologia del paesaggio nell’area dell’aeroporto di Comiso, modellandola. Qualcuno si domanderà: e gli edifici che sono davanti al terminal, che fine faranno? La natura si adatterà ad essi? Assolutamente no!!! Il territorio antropizzato dell’ex base Nato verrà surclassato ed invaso totalmente dal paesaggio: questo si riprenderà ciò che gli è stato tolto. Ma non basta, secondo me, ridisegnare un pezzo di territorio per dare a questo un’identità. La sfida consiste nella ricerca della specificità del carattere, che è l’identità. Essendo per vari motivi molto legato al territorio ibleo, ho vagabondato per questi luoghi scoprendone moltissimi aspetti, che fanno di questa parte della Sicilia un posto unico. Prima di tutto sicuramente la bellezza del panorama, dove l’uomo si è inchinato alla natura senza averla trasformata o, peggio, deturpata. “È come se mi sentissi a casa, così bene in questo abbraccio della natura allo stato puro, che è il più bell’abbraccio di grandezza e di bellezza che puoi avere. Questa bellezza in qualche modo ti entra dentro e ti dà una dimensione di qualcosa che non ti appartiene, ma che è anche tuo e di cui sei parte” (Tiziano Terzani). Così mi ritrovo a scoprire elementi di architettura adattati alla natura del luogo. Ci sono le neviere che per la loro particolare struttura rappresentano una singolarità di questa terra in quanto depositi di neve, che la natura concedeva agli uomini del passato in maniera più abbondante rispetto ad oggi, divenendo refrigerio alle calde giornate estive, delizia del palato nei banchetti dell’aristocrazia locale o rimedio ad alcuni tipi di malattie. Sono costruzioni, queste, che fanno parte di quell’antico mondo rurale da cui, soprattutto nei secoli passati, è dipesa l’economia e la sussistenza della zona: le più antiche risalgono al XVIII secolo e fino ai primi del Novecento si contavano venticinque neviere in attività. Altra caratteristica unica di questi luoghi sono sicuramente le antiche necropoli rupestri sparse per tutto il territorio. Senza dubbio la più importante è quella di Pantalica, iscritta nel 2005 nella World Heritage List dell’UNESCO. Ma altre di notevole importanza si trovano dalle parti di Ispica, Modica, Rosolini e Palazzolo Acreide. Alcune di queste, nei primi secoli del Medioevo, divennero rifugi sicuri dove abitare, poiché situati in luoghi difficilmente accessibili: è il periodo questo in cui la Sicilia diventa preda prima dei barbari per poi subire la dominazione araba. Queste necropoli rappresentano qualcosa di unico nel panorama mondiale, poiché realizzate nelle pareti rocciose di valli e gole, comunemente chiamate cave, modellate dall’azione millenaria di acqua e vento. Osservandole dal basso è possibile notare un’infinita serie di fori nella roccia, come se le pareti rocciose avessero centinaia di occhi che osservano il panorama. La presenza dell’uomo civilizzato in questi luoghi è data dalle numerose cittadine, più o meno grandi, che nel corso dei secoli si sono sviluppate. Molte di queste, come ad esempio Ragusa, parte di Modica, Chiaramonte Gulfi, Buscemi, Palazzolo Acreide o Monterosso Almo, si trovano in cima a rilievi più o meno alti. Caratteristica comune di questi luoghi sono i vicoletti, veri e propri cortili comuni, i cosiddetti curtigghi, in cui gli abitanti più anziani, soprattutto nel periodo estivo, sono soliti ritrovarsi al tramonto del sole in cerca di refrigerio; ma sono anche luoghi nei quali generazioni di bambini, compreso il sottoscritto, sono cresciuti giocando con i propri coetanei. Se si vuole scoprire e conoscere la vera natura degli abitanti di questi posti, è solamente passeggiando per questi vicoli che è possibile riuscirci. Questi sono i luoghi definiti da Marc Augè: qui le relazioni si costituiscono e si intrecciano, attraverso il rapporto che gli abitanti creano con questi spazi, animandoli e dando loro un’identità. Qui l’individuo emerge, anche attraverso i racconti degli avvenimenti della giornata, e chi li ascolta diventa anch’esso protagonista. Gli abitanti si sentono parte integrante del luogo perché oltre ad esservi nati lo vivono: se chiedete alle persone dei vari paesi, essi risponderanno di appartenere al quartiere in cui vivono. Michel de Certeau, storico francese, parla di “legge del proprio”, poiché l’abitante “occupa il suo luogo”: tutti insieme si ritrovano perché l’identità condivisa porta ad occupare lo stesso luogo. Da queste considerazioni prende forma un parco con rilievi più o meno pronunciati, che genera un ambiente morfologicamente articolato che riproduce la dinamicità del paesaggio ibleo. Questa stessa logica guida la progettazione dei singoli edifici che abiteranno l’area davanti al terminal: la stazione ferroviaria per il collegamento veloce con l’aeroporto di Catania, la stazione metropolitana per la connessione con Comiso, un albergo per i passeggeri in transito ed un auditorium per conferenze. Fra questi s’insinuano, in una visione plastica orografica, luoghi di riposo collegati da sentieri, spazi d’incontro fra genti diverse, aree per il gioco dei bambini in attesa del volo… A questo scenario un po’ espressionista concorrono anche le neviere, mutuate dalle uscite del parcheggio sotterraneo. Analoga è stata la linea progettuale del terminal. Come scrive Lara Vinca Masini, citando Cornelius Gurlitt, a proposito della ricerca architettonica, “questa deve cercare di dare il carattere di unicità, un’opera unica e irripetibile”: tema questo riconducibile alla poetica architettonica Espressionista. L’edificio che si progetta ha motivo di esistere solo in questo luogo e in nessun’altro, perché le peculiarità dell’opera devono riprendere i caratteri tipici, come un albero che ha le radici in un determinato terreno. Visitando l’edificio tuttora esistente, si prova un senso d’indifferenza verso l’architettura: la critica non è rivolta all’aspetto funzionale. “L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi. La Costruzione è per tener su, l’Architettura è per commuovere”, scriveva Le Corbusier. L’attuale terminal, invece, potrebbe star bene in qualsiasi altra parte del mondo, proprio perché non ha un legame con la storia e il paesaggio che lo circonda. Il progetto nasce dall’idea di integrare in un unico edificio le due aree destinate ai voli nazionali e a quelli oltre confine. Un riferimento importante sono stati i progetti del nuovo aeroporto di Siviglia di Rafael Moneo e del nuovo aeroporto di Madrid – Barajas di Richard Rogers. Si tratta in entrambi i casi di architetture fortemente relazionate ai siti che li contengono. Come scrive Alberto Ustarroz, a proposito del progetto di Moneo, l’architetto spagnolo “ricorre all’evocazione e alla citazione di alcuni archetipi, forme ed effetti caratteristici dell’architettura ispano-musulmana” per cercare di ricreare l’effetto del castillo interior di Siviglia. Osservando l’aeroporto da lontano si ha l’impressione di “un recinto rettangolare chiuso ed impenetrabile come un alcàzar od una moschea, serrato come un convento sivigliano. […] Appare come un edificio ermetico che, al di là dei suoi muri, non lascia trasparire la propria destinazione d’uso, ma i cui vuoti riempiti da palme e aranceti, e gli interni annunciati dai tetti iterativi di tegole di maiolica blu irti di lucernari, appaiono familiari poiché parenti di quell’architettura ispano-araba presente a Siviglia”. Richard Rogers, invece, per il Terminal 3 dell’Aeroporto di Madrid Barajas, negli schizzi ideativi, raffigura il nuovo edificio come una sorta di prosecuzione della conformazione della collina adiacente: un terreno che presenta un’alternanza di rilievi e depressioni riprodotti nel profilo ondulato della copertura dell’aerostazione. Dal punto di vista funzionale, l’edificio viene concepito distinto su due livelli, per separare il flusso dei viaggiatori in partenza da quello dei viaggiatori in arrivo, come avviene in moltissimi aeroporti italiani e stranieri. Il piano terra, destinato ai passeggeri in arrivo, viene pensato come un grande basamento in pietra di Comiso che sorregge e contrasta il livello superiore vetrato, destinato ai viaggiatori in partenza. La contrapposizione principale sta’ nel mettere in antitesi due materiali completamente diversi tra loro che contrappongono un senso di robustezza come quello della pietra, al senso di leggerezza tipico del vetro. Il basamento in pietra vuole inoltre rimandare alle necropoli iblee. La stessa scena delle necropoli, in qualche modo, si ripete nell’immagine complessiva di alcuni panorami dei piccoli centri arroccati sui rilievi di questo territorio, specie se visti dal basso o da fotografie. È questa l’immagine che appare delle parti più antiche di questi paesi, con edifici di pietra incastonati l’uno nell’altro, ai margini degli strapiombi, sulle tipiche cave del paesaggio ibleo. Le stesse finestre risultano assimilabili a sistemi di fori o ancor di più di occhi che ammirano lo spettacolo offerto loro dalla natura. Il progetto evoca quel sistema di forature nel basamento di pietra dell’aerostazione, dal quale emerge la parte vetrata. A questo livello gli ingressi vengono pensati come grandi aperture quadrate, che danno la sensazione di essere inghiottiti all’interno dell’edificio o viceversa riversati fuori: una sorta di viaggio all’interno della montagna. Il livello superiore, caratterizzato dall’involucro vetrato che lo avvolge completamente, costituisce il punto d’osservazione privilegiato verso lo scenario naturale dei monti Iblei e del parco di progetto. Il riferimento è a Paul Scheerbart, quando a proposito di Bruno Taut, nel suo saggio Glasarchitektur, guarda ad un’architettura trasparente: “la nostra civiltà è in certa misura un prodotto della nostra architettura. Se vogliamo elevare il livello della nostra civiltà saremo costretti, volenti o nolenti, a sovvertire la nostra architettura. Questo sarà possibile eliminando la chiusura degli spazi in cui viviamo ed introducendo l’architettura del vetro”: questo permetterà all’ambiente che circonda l’edificio di entrare all’interno dell’architettura per esserne un tutt’uno. È un po’ come la metafora della migrazione. Parafrasando Montaigne (“chi parte sa’ da cosa fugge ma non sa’ quello che cerca”) e rimodulandolo con “chi parte sa’ cosa lascia ma non sa’ quello che trova”, l’architettura narra la vicenda del viaggiatore nei cui occhi entra l’immagine del paesaggio, nel tempo che precede il suo salire a bordo del proprio aereo. La soluzione della copertura rientra appieno nella logica della morfologia del paesaggio. Come Rogers nel terminal madrileno evocava le colline circostanti, così la copertura ondulata dell’aerostazione di Comiso evoca, per un verso l’andamento sinuoso dei monti Iblei e, per l’altro verso, l’immagine del movimento delle dune sabbiose delle spiagge del ragusano. L’edificio perde la propria pesantezza, dal momento in cui la parte vetrata si libera dal basamento, per compiersi nella leggerezza della sinuosa copertura che appare modellata dall’azione del vento. Un ulteriore rimando alla specificità morfologica del territorio è volutamente contenuto nella geometria dei moduli di cui si compone la copertura: la loro forma trapezoidale e le loro dimensioni richiamano le proporzioni e le forme del tessuto urbano di una delle parti più antiche del centro storico di Comiso.
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    “Il residuo deriva dall’abbandono di un terreno precedentemente sfruttato. La sua origine è molteplice: agricola, industriale, urbana, turistica etc”. Questa definizione di Gilles Clément, contenuta all’interno del Manifesto del Terzo Paesaggio, meglio di ogni altra riesce a definire, o più opportunamente, a qualificare l’area del nuovo aeroporto di Comiso. Come abbiamo visto nel primo capitolo, nel corso di quasi ottant’anni, quest’area ha subito...

    Project details
    • Year 2012
    • Main structure Mixed structure
    • Status Research/Thesis
    • Type Parks, Public Gardens / Public Squares / Urban Furniture / Airports / Railway Stations / Parking facilities / Office Buildings / Multi-purpose Cultural Centres / Concert Halls / Hotel/Resorts / Bars/Cafés / Restaurants / Interior Design / Graphic Design / Bus Stations / Leisure Centres / Passenger Terminals / Tunnels / Underground Stations
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