POGGIO DEL COMMIATO | GAME (Gabriele Architetto Marinelli Enterprise)

restauro, ristrutturazione e progettazione del sistema villa-parco Marcelli-Flori in Jesi e sua conversione in una casa del commiato Jesi / Italy / 2018

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POGGIO DEL COMMIATO


Il progetto di recupero della villa Marcelli-Flori in Jesi: un racconto.



PREMESSA


Visti gli ultimi accadimenti nel campo della giurisprudenza che regola le attività commerciali quali le cosiddette “sale del commiato” abbiamo ritenuto indispensabile chiarire preventivamente i seguenti punti:


1) La Legge Regionale n. 20 del 16/03/2000 regolamentava la realizzazione di strutture destinate alla erogazione di prestazioni sanitarie e socio-sanitarie comprese le relative “sale del commiato” (art. 7 L.R. 20/2000) anche al fine di regolamentarne il relativo fabbisogno e i relativi requisiti minimi generali e specifici;


2) La Legge Regionale n. 03/2005 recante “Norme in materia di attività e servizi necroscopici, funebri e cimiteriali stabiliva, fra l’altro, all’art. 11 lettera a) che “con regolamento Regionale dovevano essere definiti i requisiti e le modalità per l’autorizzazione allo svolgimento di attività funebre e la gestione delle cosiddette “sale del commiato”;


3) Il Regolamento Regionale n. 03/2009, emanato ai sensi dell’art. 11 della L.R. n. 03/2005 stabiliva, fra l’altro, all’art. 20 quanto segue: “L’autorizzazione all’apertura, alla gestione e al funzionamento delle sale del commiato è rilasciata ai soggetti di cui al comma 1 dal Comune, previo parere favorevole dll’ASUR che ne attesti il possesso delle caratteristiche igienico-sanitarie di cui all’art.3 comma 3 della Legge Regionale”. L’ASUR provvedeva anche alla vigilanza igienico-sanitaria sul funzionamento delle sale del commiato. Con l’autorizzazione all’apertura viene anche approvato il regolamento interno di funzionamento;


4) In data 28/10/2016 è entrata in vigore la Nuova Legge Regionale n. 21/2016 recante: “Autorizzazioni e accreditamento istituzionale delle strutture e dei servizi sanitari, socio-sanitari e sociali pubblici e privati”;


5) La Legge Regionale n. 21 del 28/10/2016 ha abrogato la precedente Legge Regionale n. 20/2000 del 16 marzo 2000 pertanto relativamente alla verifica della compatibilità Regionale, l’ufficio di Funzione e Promozione della salute dell’Agenzia Sanitaria Regionale ha chiarito che sulla scorta della attuale normativa Regionale che disciplina l’autorizzazione all’apertura delle Sale del Commiato, non è prevista una valutazione preventiva del fabbisogno da parte della stessa;


6) Con regolamento n. 03 del 03 marzo 2017 recante “Modifica al regolamento Regionale n. 03 del 09/02/2009 – Attività funebri e cimiteriali ai sensi
dell’art. 11 della LR n. 03/2005 – Regolamentazione delle sale del commiato” è stato modificato l’art. 20 introducendo il comma 3 ter che introduce la norma che le sale del commiato non possono essere realizzate dai soggetti di cui al comma 1 entro 100,00 ml dalle civili abitazioni;


7) Detta modifica, introdotta su proposta di un Consigliere Regionale e seppur al momento in vigore, è tuttavia al vaglio dell’Assemblea Regionale e della relativa Commissione che, su richiesta delle organizzazioni di categoria del settore, valuta una nuova e meno penalizzante regolamentazione che ristabilisca dei criteri equi soprattutto nei confronti di chi ha investito, sia in termini economici che di idee progettuali, in progetti finalizzati a tale scopo, analizzati e valutati tra le parti prima dell’entrata in vigore di detta normativa;


8) Considerato che il progetto preliminare in oggetto, finalizzato sia al recupero dell’edificio storico con l’annesso parco sia alla trasformazione in sede per attività di pompe funebri con annesse sale del commiato, stante la complessità dell’intervento richiederà tempi lunghi, la presente istanza viene formalizzata esclusivamente per ottenere dei pareri preventivi sia da parte dell’Amministrazione Comunale che della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Regione Marche, nelle more dell’auspicata nuova modifica al citato Regolamento Regionale n. 3 del 03 marzo 2017, nella speranza di poter avviare quanto meno i lavori necessari al restauro e risanamento conservativo della struttura;


9) Pertanto nella seguente relazione si farà in ogni caso riferimento alla futura realizzazione della casa del commiato, obiettivo finale da raggiungere che, pur non essendo ancora reale né potenziale (mancando appunto il supporto normativo) ha guidato tutte le decisioni progettuali – compreso lo spirito del restauro – che di seguito verranno descritte e narrate.


 



INDICE


CAPITOLO 1: PREMESSE GENERALI


1.1 CONFERIMENTO DELL’ INCARICO, INDIVIDUAZIONE DELL’OGGETTO DI PROGETTO E OBIETTIVI DELLA COMMITTENZA.


1.2 INQUADRAMENTO CATASTALE, URBANISTICO E NORMATIVO ATTUALE.


 


CAPITOLO 2: RICOGNIZIONI STORICHE


2.1 INDAGINE STORICO-GENEALOGICA SULLA FAMIGLIA MARCELLI-FLORI 2.2 DA CASALE A VILLA: UN’IPOTESI DICHIARATA O CONCRETA?


 


CAPITOLO 3: RESTITUZIONE SCRITTA DELLO STATO DI FATTO DELL’ECOSISTEMA DELLA VILLA: UN’INDAGINE CONDOTTA SUL CAMPO


3.1  LA POSIZIONE URBANA E TERRITORIALE


3.2  LA RELAZIONE CON IL CIMITERO


3.3  LA VISIBILITA’ E LA PERCEZIONE DALL’ESTERNO


3.4  GLI ACCESSI: CONNESSIONE FISICA TRA CITTA’ E ECOSISTEMA


3.5  UNA PROMENADE DI SITUAZIONI


3.6  IL PARCO: UNA TELA INFORMALE


3.6.1 La flora e la fauna


3.6.2 L’esedra


3.6.3 La dependance


3.7  IL CORPO – ESTERNO ED INTERNO – DELLA VILLA: ANALISI


3.7.1 La storia recente


3.7.2 Coperture


3.7.3 Facciate


3.7.4 Spazi interni


3.7.5 Apparato strutturale


3.7.6 Impianti


3.7.7 Sistemazioni esterne


3.7.8 Le tracce evolutive


 


CAPITOLO 4: ANALISI CRITICA DELLO STATO DI FATTO DEL CORPO DELLA VILLA: LE TRACCE PRATICHE DELLA SUA TRASFORMAZIONE


4.1 CASO 1: LA POSIZIONE ORIGINARIA DEL PROSPETTO SUD-OVEST


4.2 CASO 2: DIETRO LA FACCIATA


4.3 CASO 3: LA FACCIATA SOVRAPPOSTA


4.4 CASO 4: L’ENIGMA DELLE FONDAZIONI


4.5 CASO 5: TRA CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’


4.6 CASO 6: LA VILLA COME INSIEME DI PARTI


4.7 SINTESI: LA VILLA-PALINSESTO



CAPITOLO 5 (Intermezzo): IL COMMIATO E IL SUO SPAZIO


5.1 CONSIDERAZIONI GENERALI SULLE FUNERAL HOME


5.2 L’ELENCO DELLE FUNZIONI


5.3 VITA MORTE E CONSERVAZIONE DELL’ENERGIA



CAPITOLO 6: IL PROGETTO TRA CONSERVAZIONE, RESTAURO E INNOVAZIONE


6.1  IL FUTURO AGISCE SUL PRESENTE


6.2  LE DIVERSE VIE DEL RESTAURO


6.2.1 La “posizione centrale”


6.2.2 La “pura conservazione”


6.3  DALLE TEORIE ALLA PRATICA: CONSERVAZIONE


6.3.1 La materia tra conservazione e decadimento


6.3.2 Lo spirito e l’eredità ruskiniana


6.3.3 L’evento esterno come coautore dell’opera


6.3.4 L’intervento dissonante


6.3.5 La materia come parametro del grado d’entropia


6.3.6 L’intervento corale


6.4  IL PROGETTO DEL NUOVO: INNOVAZIONE


6.4.1 conservazione:innovazione=continuità:discontinuità


6.4.2 Contro l’ambientamento


6.4.3 L’innesto del nuovo come rispetto del vecchio


6.4.4 Dissonanze e sfumature


6.4.5 L’atto critico: dalla “pura conservazione” alla “posizione centrale”


6.4.6 La struttura del vuoto


6.4.7 La testimonianza dell’albero


6.4.8 Il ruolo dell’acqua e del giardino


 


CAPITOLO 7: RESTITUZIONE SCRITTA DELL’INTERVENTO SULLA VILLA: CONSERVAZIONE, ATTI CRITICI E PROGETTO


7.1  DAL GENERALE AL PARTICOLARE


7.2  IL CORPO – ESTERNO ED INTERNO – DELLA VILLA: INTERVENTO


7.2.1 Coperture


7.2.2 Facciate


7.2.3 Spazi interni


7.2.4 Apparato strutturale


7.2.5 Impianti


7.2.6 Sistemazioni esterne


 


CAPITOLO 1: PREMESSE GENERALI


1.1 CONFERIMENTO DELL’INCARICO, INDIVIDUAZIONE DELL’OGGETTO DI PROGETTO E OBIETTIVI DELLA COMMITTENZA. Lo studio di progettazione architettonica GAME – nella figura dell’architetto Gabriele Marinelli, redattore del seguente scritto e firmatario del progetto qui presentato – è stato incaricato dal sig. Gianni Chiodi, titolare dell’omonima ditta “Chiodi s.r.l.”, di elaborare un progetto di recupero – termine da intendere nella sua accezione più ampia – della villa storica nota come villa Marcelli–Flori (o villa di Poggio Piacevole) e del parco alberato che la circonda. L’intero complesso è situato a Jesi, in località S. Lucia, e il sig. Gianni Chiodi ne è divenuto recentemente legittimo proprietario.


La generica volontà di recupero della villa da parte della committenza si è immediatamente evoluta attraverso questo studio di progettazione, traducendosi di fatto in un più pregante e corretto progetto di Restauro e Risanamento Conservativo, una dicitura – e di conseguenza una prassi – più consona a quanto previsto dal Piano Particolareggiato di Recupero della Città Storica elaborato dal Comune di Jesi.


Lo scopo del conferimento dell’incarico è quindi di duplice natura: da un lato c’è la forte volontà della committenza di far recuperare alla cittadinanza l’intero insieme della villa e del parco alberato all’interno del quale insiste al fine di conservarli in vista della loro trasmissione al futuro in quanto bene storico-architettonico e paesaggistico – e quindi testimonianza materiale e culturale del patrimonio locale e nazionale; dall’altro lato c’è la volontà complementare, sempre da parte della stessa committenza, di un suo riuso integrato attraverso una mirata e idonea riconversione funzionale dei suoi spazi, esterni e interni, al fine di inserirvi la sede di una nuova attività commerciale, un’impresa di pompe funebri dotata di tutte le necessarie strutture che la rendono tale: prima tra le altre, una casa del commiato, o casa funeraria che dir si voglia, quel nuovo tipo di spazi e ambienti dedicati all’ultimo contatto con l’individuo defunto, e all’elaborazione dei riti e dei gesti di commiato e di distacco che lo accompagnano.


1.2 INQUADRAMENTO CATASTALE, URBANISTICO E NORMATIVO. Attualmente, dal punto di vista catastale, l’intera proprietà risulta frazionata in diverse porzioni immobiliari che, con le relative pertinenze esterne, sono distinte al CF al FG. 37 mappali n. 131 SUB. 1-2-3-4 e al CT al FG. 37 mappali nn. 116, 117, 118, 127, 129, 132, 136, 151, 605, 610, 616, 660, 743, 828, 835, 1180, 1195, 1212, 1220, 1221 di mq. 24.278,00. Tutto questo risulta di proprietà della società CHIODI s.r.l. con sede in Castelplanio Via Roma n. 78 giusto decreto del tribunale di Ancona in data 21/12/2016 repertorio n.1103. L’intero complesso edilizio sarà oggetto del progettato intervento di Restauro e risanamento conservativo con cambio d’uso ai sensi art. 22 comma 1° e 2° del DPR n. 380/2001 e s.m.i.
La villa denominata Marcelli-Flori è stata classificata dal Comune di Jesi come villa storica, e pertanto è regolamentata da un preciso corpo normativo. Oltre alla villa in quanto immobile, ricade nel medesimo corpo normativo anche il parco alberato che la circonda; in sostanza l’intera proprietà immobiliare e fondiaria. Di conseguenza, per semplicità di linguaggio, d’ora in avanti ci riferiremo alla villa e al parco come all’ecosistema della villa Marcelli- Flori (che comprende anche una piccola dependance come pertinenza). Individuata nella Variante Generale del P.R.G. Comunale all’interno della zona TE 1 - territorio urbano edificato: città storica, e della sottozona TE 1.7 – edifici e complessi di valore storico documentale in territorio urbano (sottozona A7, come documentato dall’omonimo libretto) è regolamentata in base all’art. 31 delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano Particolareggiato di Recupero della Città Storica (aggiornate con delibera C.C. n. 121 del 21/12/2016 (già art. 27). Inquadrando il progetto come un restauro e risanamento conservativo, in base all’art. 31 delle suddette N.T.A. siamo nelle condizioni di formulare un intervento diretto sull’immobile, la sua pertinenza e l’intero parco alberato – senza dover quindi ricorrere ad un Piano di Recupero.


Essendo poi classificato come bene culturale, l’ecosistema della villa risulta anche sottoposto al D. Lgs 42 del 22 gennaio del 2004 e s.m.i., e quindi alla tutela e vincolo da parte della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche; ossia al parere favorevole da parte del Soprintendente al fine del rilascio dell’autorizzazione all’avvio dei lavori.


 


CAPITOLO 2: RICOGNIZIONI LUNGO LA DINAMICA STORICA


Prima di arrivare al sig. Gianni Chiodi, l’ecosistema della villa è passato attraverso differenti e travagliate vicissitudini, contraddistinte da numerosi passaggi di proprietà. Da una visura catastale storica si riassumono qui di seguito le varie fasi che si sono succedute e che è stato possibile riscontrare:


Proprietà originaria: famiglia Marcelli-Flori;


Proprietà riscontrate nell’impianto meccanografico del Catasto terreni e Catasto fabbricati del Comune di Jesi alla data del 30/06/1987 e fino al 24/0/2002:
- Marcelli-Flori Cristina propr. Per 1/3;


- Marcelli-Flori Giacomo propr. Per 1/3;
- Marcelli-Flori Giovanni propr. Per 1/3;
- Roccetti Luigia ved. Marcelli Flori Usu.ria per 1/3.
Proprietà dal 24/06/2002 fino al 16/05/2003:
- Marcelli Flori Giovanni proprietario per 1000/1000 bene personale (Atto notarile Dott. Scoccianti di Ancona in data 24/06/2002 rep. 284867).
Proprietà dal 16/05/2003 fino al 21/12/2017:
- Margarucci Lamberto proprietario per 1⁄2 in regime di separazione dei beni;
- Tomassoni Gabriella proprietaria per 1⁄2 in regime di separazione dei beni. Proprietà dal 21/12/2017:
- Chiodi s.r.l. con sede in Castelplanio Via Roma 78 (Decreto dell’autorità giudiziaria del 21/12/2017 rep. 1103).


2.1 INDAGINE STORICO-GENEALOGICA SULLA FAMIGLIA MARCELLI-FLORI E I SUOI POSSEDIMENTI. Come si può notare, il contributo dato dalla famiglia Marcelli- Flori in merito alla gestione dell’intero ecosistema della villa è stato più che determinante nel corso degli anni. Per cui, prima di tentare di formulare un’ipotesi cronologica quantomeno attendibile e oggettiva circa l’evoluzione storica dello stesso, è opportuno, soprattutto in vista del restauro, ricostruire anche le vicende della nobile famiglia jesina dei Marcelli-Flori, che ha legato storicamente il proprio nome all’edificio e a quel particolare luogo che ne è stato generato: “È sicuro che il progetto di restauro deve essere basato su una “storia interna”, non fatta soltanto di forme, di
materiali, di tecniche, di contesti e di altro ancora. In sostanza, occorre una storia che consideri tutti gli aspetti e le parti dell’opera, integrandoli reciprocamente in modo da intendere, da penetrare la complessa attività conoscitiva, e ad un tempo produttiva, che chiamiamo semplicemente storia”1. Proprio dal nome possiamo dedurre che tale famiglia ne commissionò i lavori e ne fu proprietaria, almeno fino al 2003, anno in cui, come si evince dai dati di cui sopra, terminano definitivamente i loro diritti di proprietà.


Anche l’altro nome (o, per meglio dire, appellativo) con cui è nota – Poggio Piacevole – è un elemento che rimarca il legame tra l’ecosistema della villa e la famiglia, in quanto fu proprio quest’ultima ad attribuirlo a quel piccolo altipiano boscoso in contrada S. Lucia: la tenue traccia leggermente scavata nel parametro murario dalle lettere in rilievo – ormai distaccate e perdute, e di cui siamo impossibilitati a conoscerne la materia andata irrimediabilmente perduta – di tale appellativo si intravede ancora tutt’oggi sulla facciata principale, verso sud-est (vedi Tavola 2, Pov. 23).


Tuttavia sono poche le testimonianze scritte ritrovate che documentano con esattezza il legame temporale e materiale della villa con la famiglia che assunse l’impegno della sua realizzazione – a differenza dell’omonimo palazzo collocato entro le mura cittadine. Com’è possibile appurare da un articolo della curatrice dell’archivio storico famigliare Enrica Conversazioni, ovvero L’archivio privato dei conti Marcelli Flori2, di fatto emergono molti accenni al palazzo settecentesco della nobile famiglia jesina ubicato in fondo a via Delle Terme (a ridosso delle mura cittadine) in prossimità dell’attuale porta Bersaglieri. La costruzione del palazzo, sorto sull`area di edifici preesistenti più antichi, si può far risalire alla metà del '700. Si ha infatti notizia che nell'aprile del 1749 il complesso delle case che insistevano dove sorge attualmente l'edificio furono vendute a Giacomo Marcelli Flori, probabilmente committente dell'odierno palazzo. Sempre il citato articolo fa una descrizione sintetica ma esauriente dell’archivio privato dei conti Marcelli Flori e, nonostante ciò, qui la villa non viene mai citata a differenza del palazzo, sempre descritto come uno dei meglio conservati in città: “Di intera proprietà della famiglia e non diviso in una miriade di pertinenze diverse, come altri edifici storici locali, conserva tutte le caratteristiche, sia esterne che interne, arredamenti compresi, della residenza nobiliare di un’epoca in cui la posizione sociale doveva essere ribadita anche dal prestigio dell’abitazione. [...] L’edificio acquistato quindi a metà settecento, ampliato e abbellito con successivi interventi che ne hanno
valorizzato sia la facciata principale, sia le ampie sale interne riccamente affrescate, divenne la principale residenza della famiglia Marcelli Flori”3.
Tornando alla genealogia della famiglia Marcelli Flori, “secondo la tradizione scritta essa ebbe come capostipite “dominus Melchior Marcellus de Esio” il cui nome ricorre spesso negli antichi registri del Comune di Jesi, dove dal 1485 al 1504 lo troviamo segnalato come membro dei consigli cittadini e titolare di varie e importanti cariche pubbliche, prima fra tutte quella di gonfaloniere per il bimestre marzo-aprile 1497. Dal testamento di Melchiorre Marcelli, risalente al 13 febbraio del 1505, apprendiamo che egli ebbe tre figli: Agostino, Gio.Domenico e Pietrosante. Probabilmente Melchiorre morì poco dopo aver stilato il testamento poiché sono datate 28 giugno 1505 la seguente richiesta al Comune di Jesi e la relativa concessione: “Heres domini Melchiorris Marcelli ... petunt eis refermari rata terrenorum Comunis eorum patribus concessorum ad laboritum...”. Sempre nei registri comunali dal 1537 al 1588 ricorrono spesso i nomi: “Johannes Domenicus domini Melchiorris”, nel Magistrato per il bimestre maggio-giugno 1537, e “Augustinus domini Melchiorris”, nel Magistrato per il bimestre gennaio-febbraio 1539, ma non figura più il cognome “Marcellus” che invece accompagnava sempre il nome di Melchiorre. Dopo la richiesta avanzata al Comune dagli eredi di “Melchior Marcellus” non si sono rintracciati documenti provanti la presenza a Jesi di una famiglia a lui riconducibile. Nei documenti genealogici dell’archivio domestico, tra le prove della discendenza della famiglia da Melchiorre Marcelli è riportato un contratto matrimoniale stipulato a San Marcello nel 1555 tra Francesco di Gio. Domenico di Melchiorre e Polisenna. Se questo Melchiorre, nonno di Francesco da cui poi discenderanno i Marcelli di San Marcello storicamente documentati, è lo stesso “dominus Melchior Marcellus” che fu gonfaloniere di Jesi nel 1497, resta ignoto il motivo per cui una famiglia senz’altro prestigiosa se alcuni suoi membri avevano accesso alle più alte cariche pubbliche, ad un certo momento abbia deciso di lasciare la città, con tutto ciò che questo comportava, per insediarsi in un piccolo centro periferico qual era San Marcello. Comunque è qui che la famiglia Marcelli è documentata a partire dalla seconda metà del XVI secolo, è qui che svolse per tutto il XVII secolo un ruolo economico e sociale di primo piano, che la renderà la più ragguardevole del Castello. Nel 1704 Luigi Francesco Antonio Marcelli sposò Virginia Flori, esponente di un’altra facoltosa famiglia di San Marcello: nei patti matrimoniali c’era anche l’obbligo per Luigi di aggiungere al proprio il cognome della moglie, così il ramo della famiglia da lui discendente, che è quello tuttora esistente, assunse in cognome Marcelli Flori.
Nel primo quarto del XVIII secolo la posizione della famiglia era ascesa ad un grado di prestigio tale da indurla a cercare orizzonti più consoni al proprio status. Dopo varie istanze, nel 1729 fu aggregata, per breve papale, alla nobiltà jesina col titolo comitale, il che le permise di accedere e partecipare alla vita politica cittadina. Da questa data famiglia, come altre aggregate nello stesso periodo, svolse un ruolo da protagonista nella gestione della cosa pubblica fino a tutto l’Ottocento che vide tra i membri di maggior spicco del casato il conte Marcello Marcelli Flori che partecipò attivamente alle vicende risorgimentali e fu il primo sindaco di Jesi subito dopo la proclamazione del Regno unito [...].


I documenti più antichi, che interessano un periodo che va dalla metà del XVI secolo alla fine del XVIII, comprese anche 41 pergamene, sono raccolti in 18 volumi, ognuno dei quali reca un titolo, una numerazione e a volte anche note esplicative dalle quali apprendiamo che la raccolta fu costituita nell’ultimo decennio del secolo XVIII da mons. Francesco Marcelli probabilmente motivato a far ciò dall’intento di raccogliere documentazione provante l’antichità della propria famiglia, indispensabile per ottenere l’iscrizione all’ordine cavalleresco di Santo Stefano: risale infatti allo stesso periodo l’espletamento delle relative pratiche. Dall’antica numerazione che figura nei volumi e da una “nota di scritture di casa Marcelli tenute a Roma da Pietro Marcelli”, risalente al 1768, possiamo dedurre che l’archivio Marcelli giunto fino a noi non è che una minima parte di quello prodotto dalla famiglia nel corso della sua storia; questo probabilmente sia per le dispersioni prodotte da divisioni patrimoniali che spesso interessavano anche l’archivio domestico, sia per l’inevitabile incuria e il disinteresse che di norma hanno spesso suscitato le “carte vecchie”, come è dimostrato dai non pochi brandelli che a volte sono tutto ciò che resta di volumi e registri un tempo molto più consistenti e che testimoniano un antico corpus archivistico ben più cospicuo”4.


Tuttavia, consultando direttamente l’archivio privato dei conti Marcelli-Flori spunta fuori una minuta del 1868 in cui si cita per la prima e unica volta la villa. Ad essa si fa appunto riferimento come “villa in Poggio Piacevole”: a quanto pare, è probabile che tale minuta sia la sola testimonianza scritta e documentata che fa riferimento alla villa, anche se in maniera indiretta, poiché tratta di un reclamo del conte Marcello Marcelli-Flori al Comune di
Jesi per danni riportati per l’appunto nella sua villa durante dei lavori pubblici eseguiti nella strada adiacente5.


2.2 DA CASALE A VILLA: UN’IPOTESI DICHIARATA O CONCRETA? Possiamo quindi dedurre che anche dall’archivio privato dei Marcelli-Flori emerge ben poco di concreto che possa costituire un supporto oggettivo alla formulazione di un’ipotesi genealogica, e tantomeno cronologica, in merito alla villa. Sicuramente “[...] la storia costituisce senza dubbio il primo indispensabile momento dell’attività restaurativa in relazione ai criteri di individuazione, di casualità e di scelta da adottare in presenza dell’opera su cui intervenire”6.


Ma che fare in questo caso? Se ci dovessimo affidare ai soli documenti cartacei come unica testimonianza su cui impostare un lavoro di ricerca che metta in luce l’intero arco del suo divenire, l’ecosistema della villa Marcelli-Flori – insieme a tutta la sua intera storia pregressa – resterebbe pressoché avvolto nell’ombra, e di conseguenza potrebbe cadere facilmente nelle più disparate e arbitrarie interpretazioni riguardo alla sua stessa evoluzione passata, e soprattutto a quella futura.


Oltre all’archivio privato dei conti, ben poche altre sono le testimonianze scritte ritrovate che ne documentano con chiarezza anche solo una delle sue fasi storiche. La stessa biblioteca comunale, la Planettiana, sede anche dell’archivio comunale, purtroppo conserva solo due documenti che citano la villa in oggetto senza però soffermarsi approfonditamente su di essa, liquidandola con poche righe a riguardo. Tuttavia anche quei pochi accenni si sono dimostrati più che utili per inquadrarne quanto meno l’epoca di fondazione.


Il primo di questi testi, meno importante ai fini della nostra ricerca, è una tesi di laurea in architettura dell’Università degli studi di Pescara riferita all’anno accademico 1990/91, dal titolo Architetture nella valle dell’Esino (An) 7 : purtroppo della villa si limita a citare solamente il giardino, allegando però due foto: una del prospetto principale, l’altra dell’esedra del giardino. Sotto la prima è riportata la data a cui viene fatta risalire ipoteticamente la villa: secolo XIX (Foto F e G, in calce a questa relazione), Abbiamo quindi una prima data testimoniata, comunque un ulteriore informazione aggiunta alla nostra ricerca.
L’altro testo invece è una ricerca del 1988 condotta dal prof. Francesco Bonasera dal titolo Carta “tematica” delle ville “storiche” del territorio di Jesi – medio bacino dell’Esino – Marche centrali8. Riporta che “in contrada S. Lucia, su un territorio, non lungi dal cimitero (che conserva i resti dei nostri Cari di Jesi) sorge la villa Marcelli Flori (classica), in seno a un parco piuttosto devastato; risulta che era un casale trasformato tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento quando ancora lo sviluppo urbano non aveva raggiunto questa parte”9. In queste poche righe si concentra la più stimolante e preziosa delle informazioni a cui siamo riusciti ad accedere.


Secondo il professor Bonasera la villa non nasce tale ma è il risultato di una trasformazione architettonica di una preesistenza, sulla quale si è innestata verso la fine del XVIII secolo, trasformandola; la preesistenza, sostiene, era un casale, tipico elemento architettonico delle valli marchigiane, molto diffuso al di fuori delle mura cittadine, verso la campagna, come di fatto a quel tempo era la contrada S. Lucia. Anche se purtroppo il Bonasera non ne cita la fonte, l’informazione – oggettivamente parlando – potrebbe essere più che attendibile, considerati i non pochi casi nel territorio marchigiano di ville nate da questo tipo di preesistenze – come Villa Caprile a Pesaro, o Villa Simonetti a Osimo10.


Ma per quanto intrigante possa essere, finché non è supportata da dei riscontri sul campo, da prove concrete raccolte con un corretto metodo d’analisi e indagine, questa ipotesi resta semplicemente priva di fondamento – specie se dichiarata senza il supporto di fonti certe. Di conseguenza, resta solo una supposizione scritta in un documento, pertanto non possiamo ancora considerarla totalmente attendibile. Quando alla storia pratica delle cose (densa di contraddizioni, stratificazioni, discontinuità e anche paradossi) si sostituisce un suo surrogato, come la storiografia, ossia una ricostruzione della storia fatta semplicemente sulla base di ciò che è stato lasciato in forma scritta o orale (e, nel caso specifico, dedotto arbitrariamente senza essere entrati in un corpo a corpo con il monumento), avremo sempre una ricostruzione parziale, o idealizzata dei fatti; che, soprattutto nel restauro di architettura, si risolve spesso in una tendenza alla mistificazione se non peggio all’invenzione arbitraria di ipotesi e eventi.


Quindi, al di là di tutte le possibili congetture che possiamo e potremmo formulare sopra a quanto raccontato e riportato da dei documenti scritti,
resta evidente che il più efficace contenitore di informazioni da leggere e a cui attingere per poter confermare o smentire l’ipotesi del professor Bonasera è il corpo materiale della villa stessa, l’unico che davvero può svelare se essa nasce come edificio ex novo, o al contrario è il risultato di una serie di mutazioni architettoniche e funzionali che hanno interessato una preesistenza (un casale, in questo caso) e si sono succedute nel tempo fino a formare l’immagine – e il corpo – della villa che noi oggi osserviamo.


La villa – condensato di storia effettiva, archeologica – non ha valore solo in quanto opera d’arte, bene culturale – estetico e artistico –, ma proprio in quanto documento da studiare e interrogare, al fine di avere delle risposte pratiche sulle quali poi impostare un corretto progetto di restauro: “è la materia che racconta, perché ce l’ha scritto addosso, il processo per il quale è passata ogni fabbrica, anche la fabbrica più umile, e che insomma costituisce in definitiva il segno tangibile, il documento primario, su cui riposa la storicità e dunque la specificità e l’autenticità di quella fabbrica e non altre, in quel luogo e non in altro”11. Non resta quindi che interrogare la villa stessa.


 


CAPITOLO 3: RESTITUZIONE SCRITTA DELLO STATO DI FATTO DELL’ECOSISTEMA DELLA VILLA: UN’INDAGINE CONDOTTA SUL CAMPO


Il resoconto che segue è frutto di un lungo e impegnativo lavoro di rilievo (geometrico, architettonico e soprattutto fotogrammetrico – tutt’ora in corso) eseguito sul campo, in seno alla fabbrica del monumento-documento, a cui è stata sempre correlata, in maniera consequenziale, un’interpretazione ragionata di quanto scoperto attraverso lo studio clinico del corpo fisico della villa.


Tuttavia, prima di entrare in un discorso più propriamente legato ai temi del restauro e del risanamento conservativo occorre inquadrare l’intero ecosistema anche da un punto di vista più propriamente tecnico.


3.1 LA POSIZIONE URBANA E TERRITORIALE. Ci sono pochi dubbi sul fatto che il sig. Chiodi, il mio committente, abbia avuto la giusta e pronta intuizione (o, se si preferisce, il giusto senso degli affari) nel riconoscere tutte le potenzialità, e sentire le enormi possibilità che l’ecosistema della villa offriva, soprattutto nella prospettiva di una sua futura riconversione in casa del commiato e sede di un’impresa di pompe funebri.


Analizziamone la posizione urbana: rispetto alla città storica dista all’incirca meno di un kilometro, quindi è potenzialmente raggiungibile a piedi dal centro cittadino in pochi minuti – e pertanto anche dalla stazione ferroviaria. È posta all’incrocio di importanti e funzionali vie di comunicazione stradali (mai troppo congestionate e con una buona media di scorrimento giornaliero) che la connettono immediatamente sia al centro verso ovest sia alle zone suburbane e industriali vero est che alle municipalità limitrofe verso nord (la più vicina delle quali è San Marcello – altra località che, come visto, storicamente è legata ai Marcelli-Flori); e non è troppo distante (meno di un kilometro) anche dalle due uscite della strada statale 76 più vicine (Jesi est e Jesi centro). In sostanza, è facilmente raggiungibile con differenti mezzi, pubblici o privati che siano. Di conseguenza, ha una posizione favorevole anche rispetto all’Ospedale “Carlo Urbani”, cosa da non sottovalutare nell’economia e nella logistica di un’impresa funebre che offre un servizio di casa del commiato.


3.2 LA RELAZIONE COL CIMITERO. Soprattutto però – ed è questo il dato di fatto più interessante – si trova adiacente al cimitero comunale di Jesi, per la precisione al suo perimetro ottocentesco; l’ecosistema della villa ne è separato solo da una ridotta area di rispetto prevista dall’attuale Variante al P.R.G. Comunale (art. 69, Servizi e attrezzature S). In potenza, ci sarebbe la possibilità di poter accedere direttamente al cimitero passando (ad esempio in occasione di una processione) all’interno del parco, percorrendo il viale alberato fino in fondo, e, non bloccati da quello che al momento è un cul-de- sac, proseguire oltre. Questo comporterebbe un evidente vantaggio alle diverse parti in questione: ai cari del defunto per via dell’atmosfera e della riservatezza che si verrebbe naturalmente a manifestare in uno degli ultimi gesti rituali dedicati alla salma; all’impresa funebre in termini di prestigio e qualità del servizio; e, in ultimo, soprattutto al traffico cittadino in termini di migliore scorrimento ed evitati: rallentamenti, congestioni della manovra, inquinamento dell’aria, inquinamento acustico, parcheggi selvaggi (una volta giunti alla casa del commiato e lasciata in sosta la macchina nei parcheggi privati della stessa, non ci sarebbe più il bisogno di spostarla fino al cimitero). Sulla possibilità di una connessione tra cimitero e ecosistema della villa (e sui suoi parcheggi interni) torneremo più avanti, quando descriveremo il progetto.


3.3 LA VISIBILITA’ E LA PERCEZIONE DALL’ESTERNO. Incastonata – ora – tra banali palazzine residenziali costruitegli attorno a partire grossomodo dagli anni sessanta del Novecento, la villa scompare allo sguardo della città poiché circondata e protetta dai suoi numerosi alberi ad alto fusto – soprattutto conifere – e a chioma allargata. Nonostante occupi una posizione altimetrica maggiore rispetto alla città che si estende immediatamente ai suoi piedi (da cui il nome “Poggio Piacevole”), sembra nascondersi dietro le loro fronde boscose; e non è strano che molti cittadini jesini ne ignorassero e ne ignorino tutt’ora l’esistenza.


3.4 GLI ACCESSI, CONNESSIONE FISICA TRA LA CITTA’ E L’ECOSISTEMA. Di fatto, passando in auto per via Marche (strada a senso unico), è difficile cogliere anche solo il primo dei due accessi, quello principale, carrabile, collocato poco dopo il piazzale esterno di una ferramenta: distrattamente si nota un cancello in ferro, sicuramente non originale e realizzato in stile (naif, non
precisamente inquadrabile) (Tavola 2, Pov 1) sorretto da due spalle murarie in mattoni facciavista (chiaramente di recente produzione industriale) che proseguono lungo il perimetro della proprietà, adiacente ai lotti delle palazzine e alle strade limitrofe, andando a formare un muro di confine altro circa due metri (Tavola 2, Pov 6) L’altro ingresso, quello secondario e di servizio, è al termine di via Sicilia, in linea d’aria non molti metri più a nord rispetto al principale (Tavola 2, Pov 46).


3.5 UNA PROMENADE CIRCOLARE. Nel raccontare lo stato di fatto dell’ecosistema della villa partiamo dal cancello d’ingresso di via Marche. Una volta oltrepassato, è come ritrovarsi all’interno di un bosco incolto e sconosciuto, dominio della sola natura, privato alla cittadinanza per anni e riscoperto solo ora. Davanti a noi incomincia la strada in macadam, ma il suo manto ci appare completamente ricoperto sia dal terriccio accumulatosi negli anni che dal fogliame in marcescenza caduto dagli alberi circostanti. Una recente ripulitura superficiale ha riportato alla luce il vecchio tracciato imbrecciato: seguendolo dapprima con gli occhi, sale lievemente assecondando l’orografia naturale del terreno, formando una prima, decisa e stretta curva verso est, e poi una seconda, lunga e costante, che con un raggio molto più ampio continua nella sua salita inoltrandosi all’interno della folta vegetazione, fino a scomparirvi.


La cosa interessante è che da questo iniziale punto di vista non scorgiamo ancora la villa: essa non solo si nega allo sguardo del visitatore, ma la sua mancata presenza contribuisce a suscitare in esso uno straniante senso di smarrimento, unito alla concreta difficoltà nel percepirne ed intuirne la posizione. Cosa insolita per una villa, tipologia architettonica che in genere fa del suo mostrarsi – e di come mostrarsi – uno dei maggiori punti di forza. L’impatto frontale con essa è quello che il visitatore medio si aspetterebbe, poiché troppo spesso educato (almeno quando lo è) a concezioni architettoniche d’impostazione classicista. Nella maggioranza dei casi infatti, le ville storiche sette-ottocentesche, specie quelle disseminate in territorio marchigiano, sono immediatamente riconoscibili; è possibile afferrarne l’immagine fin da subito, appena varcato il loro cancello (alcune anche standone al di fuori, dalla strada), con un solo sguardo (come Villa Aia Murata a Jesi, o Villa Colle Ridente a Monsano, o ancora Villa Colle Olivo sempre a Jesi)12. Semplificando, rispondono a precisi criteri di composizione
architettonica, legati a canoni stilistici di natura classica e classicista; per cui avremo simmetria nella composizione dei volumi, nella composizione dei fronti, una loro gerarchia, una visione d’insieme, degli assi ordinatori, ecc. Tutti segni noti e riconoscibili dell’architettura di gran parte delle ville storiche riconducibili al periodo neoclassico o subito antecedente. Qui no, qui ancora non vediamo niente, neanche sappiamo con certezza dove porti la strada, né quanto sia ancora lunga: insolito per un edificio classificato come villa classica, visto che nei fatti non si comporta come tale. Tutto ciò potrebbe essere una delle proverbiali eccezioni (e ce ne sono – un esempio su tutti: la Villa Imperiale a Pesaro, del ‘500)13, ma potrebbe anche costituire un primo tassello che andrà a comporre una visione d’insieme differente sull’intera vicenda storica dell’edificio.


Torniamo al cancello d’ingresso. L’area su cui affaccia è pressoché pianeggiante, ricoperta da un manto erboso variegato e spontaneo, con alberi ad alto fusto piantumati in linea (almeno quelli a ridosso della strada). Ve ne sono altri sparsi un po’ intorno, molti a ridosso dei muri di confine, come i due grandi pini marittimi poco distanti dal cancello d’ingresso. Seguendo il tracciato della strada ci si imbatte nella prima curva che vira decisa sulla destra, verso est, per poi proseguire in tale direzione fino ad arrivare ad un bivio. La strada si biforca (Tavola 2, Pov 15): deviando verso sinistra si entra in una grande radura erbosa, scoscesa, libera da alberi eccetto quattro maestosi pini marittimi secolari (Tavola 2, Pov 41), alti all’incirca 15 metri. Proseguendo su tale percorso in salita, e pressoché tutto in curva, si giunge al piano su cui poggia la villa. In sostanza la cogliamo alle spalle, sul prospetto che guarda a nord, dopo aver oltrepassato la piccola dependance che resta alla nostra sinistra e il muro dell’esedra del parco sulla nostra destra (Tavola 2, Pov 37). Dell’esedra e della dependance racconteremo successivamente. Per ora ce ne serviamo come punti di riferimento per proseguire nel nostro percorso. La dependance da un lato quindi, e il muro convesso dell’esedra dall’altro, inquadrano la facciata posteriore della villa, che vediamo di scorcio, da una marcata prospettiva accidentale. Senza proseguire verso di essa, e volgendo invece lo sguardo verso sinistra, dalla posizione in cui siamo possiamo notare che la strada prosegue verso nord e l’ingresso secondario (Tavola 2, Pov 45), risolvendosi poi nel viale alberato di cui abbiamo parlato in precedenza, che trova una soluzione di continuità in un cul-de-sac (Tavola 2, Pov 48).
Ritorniamo allora a quella biforcazione della strada prima descritta; ora però, senza svolte, proseguiamo dritti in avanti, seguendo la curva naturale e costante del tracciato stradale che sale tuffandosi in quella che è una vera e propria selva oscura: quasi un corridoio coperto, il cui soffitto è la volta formata dai rami e dalle fronde della vegetazione spontanea cresciuta ai lati e che gli eventi naturali hanno spontaneamente intrecciato, e il pavimento è il manto in disfacimento generato dalle loro foglie caduche.


Il raggio di curvatura della strada in salita crea qui una particolare atmosfera spaziale e ambientale, ricca di suggestioni, un paesaggio esteriore arricchito anche dall’intricato gioco di ombre generato dalla relazione che mutevole s’instaura tra la struttura vegetale che ti avvolge tutt’intorno e il Sole. Dialetticamente, in chi lo attraversa tutto questo non può che corrispondere a un paesaggio emotivo interiore altrettanto condizionato, fatto da una strana sensazione di attesa nel movimento, di ansia di scoperta continuamente rimandata, disattesa dalla coltre boschiva che, se da un lato impedisce all’occhio sia di spaziare che di puntare un obiettivo certo, dall’altro lo guida verso una meta che prima o poi, deve per forza svelarsi. Ed ecco che infatti, dopo qualche altro passo, finalmente la villa ci appare in tutta la sua... inaspettata anticlassicità (Tavola 2, Pov 15,16,17,18,19).


Il prof. Bonasera nel suo resoconto l’aveva descritta come “classica”, e intrinsecamente lo è, specie nella composizione del fronte principale. Ovviamente l’aggettivo che abbiamo usato è semplicemente legato alla sua percezione rispetto a quel particolare punto di osservazione. Se ci permettiamo di usare questo termine di zeviana memoria, così forte e incisivo (così efficace), è proprio per sottolineare – positivamente – questa ulteriore realtà di fatto che pone la villa Marcelli-Flori al di fuori delle tradizionali e consolidate tipologie di impianto urbano che, come già spiegato poco sopra, si possono registrare e ammirare nelle più importanti ville storiche di Jesi – basti pensare a villa Pianetti, o villa Honorati. Come riporta il prof. Bonasera nella sua ricerca già citata, lo schema classico di una villa della vallesina si compone di: villa, cappella, serra, scuderia, casa colonica (schema allegato in calce alla relazione).14 La villa Marcelli- Flori sfugge a tale inquadramento: che sia un altro indizio sulla sua non nobile origine?


D’altro canto, è ancor vero che l’orografia del terreno permette una sola via di percorrenza per giungere alla villa (la biforcazione prima descritta non influisce sul fatto che comunque si deve risalire il poggio, e quindi giungere
a punti di osservazione dell’edificio poco distanti tra loro). Nonostante questo però, essa si adagia su un altipiano pressoché pianeggiate, ampiamente allargato, quasi di profilo circolare se si osserva in planimetria: allora, sempre rispettando i canoni della composizione classicista, perché non costruire fin da subito la villa frontalmente allo sbocco della strada? Lo spazio a disposizione lo consentiva, in pratica il suo corpo di fabbrica sarebbe stato precisamente trasversale alla sua attuale posizione, e di conseguenza avrebbe mantenuto tutta la sua rigorosa e monumentale classicità determinata da una contemplazione scaturita da un unico punto di vista privilegiato, soluzione sicuramente scenografica ma bloccata e statica, tipica delle architetture classiciste di numerose ville realizzate nel periodo storico compreso tra i secoli XVIII e XIX. Al contrario, s’è scelto di costruirla nella posizione attuale sopra descritta, molto obliqua rispetto all’osservatore, sia che questo salga da destra o da sinistra (quest’ultimo caso poi è ancora più insolito, considerando che si giungerebbe ad essa addirittura sul prospetto retrostante – senza che questo sia vestito di una facciata di rappresentanza con il prospetto opposto, di fatto principale).


Ma poniamo il caso che davvero tale costruzione sia nata come villa nobiliare: si è allora forse voluto privilegiare una sua più corretta esposizione aprendo maggiormente il prospetto sud-est al percorso del Sole nel Cielo? Può darsi, però tale soluzione sarebbe più appropriata, vista la funzione, ad un casale di campagna, la cui aia è uno dei centri nevralgici attorno cui ruota parte dell’organizzazione del lavoro; e i ritmi del lavoro in campagna dipendono in gran parte dalla luce solare. Sarebbe più probabile che una villa nobiliare sette-ottocentesca, nata ex novo, rispondesse a motivazioni di carattere compositivo, simbolico e sociale piuttosto che di natura pratica e funzionale, lasciando magari queste ultime alle sue numerose dependance.


Sia chiaro: avanzando tali speculazioni non stiamo cercando di imporre una verità che vogliamo per forza di cose rendere evidente; al contrario, cerchiamo semplicemente di leggere la realtà alla luce della storia e gettare qualche grimaldello negli anchilosati schemi mentali su cui troppo spesso ci si adagia. Anche queste domande che ci siamo posti serviranno a comporre e rafforzare la nostra visione e intenzione progettuale successivamente avanzata.
Comunque sia, la nostra villa ci appare di scorcio, e per quanto ci riguarda, ciò è un notevole valore aggiunto – una qualità d’uso inaspettata – in un contesto del genere. Un pregio perché, attraverso la visione asimmetrica, dona all’immobile un’aurea di modernità, di un certo dinamismo che la riporta a una dimensione più umana, accessibile a tutti, spogliandola di tutta quella tronfia monumentalità, autorità e retorica che avrebbe avuto se concepita secondo una visione centralmente prospettica, generata da un unico punto di vista privilegiato che ne marca la gerarchia dei fronti, così come in altre ville della Vallesina. Se volessimo vedere villa Marcelli-Flori sotto questa luce dovremmo compiere uno sforzo, ossia recarci nel punto più lontano dell’antistante radura pianeggiante, al suo limitare, sul bordo alto del greppo che la distacca dalla città sottostante, e una volta li guardarla; anzi, contemplarla: pressoché perfetta simmetria del fronte principale, rettifili regolatori della composizione del prospetto, ingresso centrale sottolineato da un portico su colonne, ritmo costante delle bucature, siano esse finestre o porte... ecco che anch’essa ci appare in una cornice classicista (anche se la stessa facciata qui appena accennata nasconde non poche sorprese, su cui torneremo più avanti) (Tavola 2, Pov 24). Ma il punto è che per far ciò siamo stati costretti a recarci in un luogo che, se non indotti da qualche elemento progettuale, mai avremmo raggiunto per motivi naturalmente comportamentali, o semplicemente funzionali all’economia dell’edificio considerato nella sua generalità: una condizione completamente artificiale e forzata. L’edificio sembra rifuggire da tale costrizione, per aprirsi invece ad un tipo di fruizione differente, che sprona al movimento.


Di fatto, una volta usciti dal tunnel vegetale e raggiunto il poggio pianeggiate su cui si adagia la villa, per comprenderla non ci resta che scoprirla un poco per volta, girandole attorno, avvicinandoci e allontanandoci a seconda dei punti di vista, mutevoli ad ogni passo eppure sempre puntati sul corpo dell’edifico, mai colto nella sua interezza (a meno di non posizionarci su quel punto improbabile descritto poco sopra). Camminando sul poggio, in prossimità del prospetto sud della villa, siamo attratti dal piccolo portico d’ingresso prima accennato, l’unico elemento che sporge in maniera evidente dalla facciata: è un terrazzino sistemato esattamente a metà della stessa (vi si accede dal primo piano), e sorretto da due colonne con anastilosi in mattoni lisciati e complanari, sormontate entrambe da un semplificato capitello neodorico. Per il momento proseguiamo oltre, lo descriveremo meglio in seguito insieme all’intera facciata.
Continuando nel nostro cammino ci accorgiamo che l’intera radura pianeggiante del poggio è circoscritta da una fitta coltre alberata, che si staglia nei pressi del confine di proprietà, e contribuisce a nascondere la villa dalle palazzine condominiali circostanti. Di tanto in tanto potremmo veder comparire, attraverso qualche buco nella vegetazione, lo spigolo di un fabbricato, o un suo terrazzo con ringhiera.


La radura antistante la villa invece si presenta come un semplice prato ricoperto da un manto d’erba spontanea: col tempo è riuscita a ricoprire anche il pavimento stradale in macadam (recentemente scoperto). L’erba della radura arriva a lambire la zoccolatura della villa poiché il marciapiede è stato quasi completamente rimosso, o è andato perduto in passato: ne restano solo pochi metri lineari, una sottile soletta in cemento armato da qualche verga liscia di ferro, rivestita di pianelle in laterizio alquanto malmesse – cosa che ci fa supporre che l’epoca della sua realizzazione sia databile grossomodo intorno alla prima metà del ‘900). Continuando a seguire la strada, giriamo attorno alla villa e svoltiamo l’angolo: siamo praticamente sul retro, nell’angolo nord-est del fabbricato, una rientranza verso l’interno del suo perimetro che rompe la semplice forma rettangolare della pianta. Proseguendo lungo il prospetto nord notiamo la presenza anche qui di un ingresso sul retro, in asse col portone d’ingresso del prospetto opposto, anche se non abbiamo nessun portico a rilevarlo. Ancora pochi passi e avremo concluso il nostro giro attorno al perimetro della villa: da qui possiamo o ridiscendere il poggio attraverso la strada descritta in precedenza, passante tra il muro perimetrale dell’esedra e la piccola dependance, e così tornare al cancello d’ingresso principale, oppure proseguire lungo la strada verso nord e il lungo viale alberato, che, come spiegato, al momento termina in un cul-de-sac.


3.6 IL PARCO. Restiamo sul parco. Come accennato, occupa un territorio di circa 4 ettari; o, per meglio dire, preserva dall’edificazione un territorio di circa 4 ettari, garantendo al contempo la presenza di notevoli alberi secolari: come ad esempio i maestosi pini marittimi che fanno bella mostra di sé disseminati in differenti punti del parco; ce ne sono tre che, come sentinelle, sorvegliano l’ingresso principale di via Marche. Comunque, è l’intero parco a ricadere – al pari della villa in sé – all’interno delle direttive poste dalla Soprintendenza della regione Marche, e pertanto tutte le specie arboree in esso presenti sono protette da apposito vincolo normativo. Difficile stabilire la tipologia del giardino che vediamo oggi – o meglio di quello che ne resta: sicuramente non è assimilabile alle tipologie classiche del giardino all’italiana (non c’è traccia di natura geometrizzata); ma neanche alle differenti esperienze legate ai modelli d’ispirazione inglese. La sua incuria, il suo essere abbandonato a se stesso lo carica di un certo romanticismo, ma questo non è voluto né ricercato attraverso un progetto, e quindi l’intervento dell’uomo. Piuttosto, è il frutto spontaneo del lavoro combinato della natura e del tempo. Il professor Bonasera l’ha definito “devastato”. Se proprio vogliamo trovargli una definizione opterei più correttamente per “informale”: un giardino informale, nato dal lavoro dell’uomo ed evolutosi nel tempo sotto la guida della natura. Questo tipo di giardino informale, in cui attualmente il segno dell’uomo è soltanto memoria di ciò che è stato in passato, è di per sé estremamente interessante poiché rifugge alle classificazioni di ordine statico incarnando concretamente il concetto di giardino in movimento: un movimento dettato dai cicli naturali, delle piante, dei venti, delle stagioni, delle piogge, degli insetti, degli animali, del Sole e dalle loro correlazioni: dal ritmo dell’ecosistema della villa, al di là dell’intervento dell’uomo.


3.6.1 La flora e la fauna. Attualmente è in corso una catalogazione di tutte quante le specie arboree presenti nel parco, al fine di costituire un registro e monitorarne la biodiversità.


3.6.2 L’esedra. In prossimità del prospetto sud-ovest della villa, il lato corto che accoglie i visitatori provenienti dai piedi del poggio, è collocata una non troppo piccola esedra asimmetrica in muratura – asimmetrica poiché manca di una delle due braccia che dovrebbero chiuderla. Occupa una posizione insolita: non è precisamente in asse con il prospetto di cui sopra e, essendo ruotata con un angolo differente, è leggermente sfalsata – in pianta – rispetto all’asse longitudinale della villa. Tuttavia, è come se l’abbracciasse, cercandola col suo unico braccio: come spiegato, ne possiede solo uno, che si prolunga verso di essa e che, in relazione alla dependance, la inquadra a chi proviene dal cancello d’ingresso e risale il poggio prendendo la biforcazione di sinistra. Non troppo alta (circa due metri), l’esedra è attualmente ammantata da una folta vegetazione di edere, cespugli e alberi a medio fusto di varie specie, tanto che il suo bordo superiore risulta impercettibile e non misurabile – nascosto com’è, è invisibile anche da
satellite. Tale vegetazione la fa apparire come una rovina che emerge dal tempo remoto, anche se non avrà più di due secoli, e tuttavia è evidente su di sé il segno del tempo fatto di incurie e normali eventi atmosferici. Caratterizzata da nicchie vuote che forse un tempo ospitavano statue, costituisce anche un’interessante scenografia paesaggistica che fa da contraltare alla villa, intessendo uno stretto dialogo tra vuoti e pieni delle masse.


3.6.3. La dependance. Questo piccola pertinenza – l’unica dell’intero ecosistema della villa – consiste in un edificio dalle dimensioni contenute, (5 x 16 metri), composto da un'unica aula coperta da un tetto a falda unica con orditura lignea e manto di copertura in coppi, mentre l’involucro è costituito da quattro pareti in muratura portante a due teste con parametro facciavista (Tavola 2, Pov 39). Il fatto che sia l’unica pertinenza della villa pone ulteriori interrogativi riguardo l’origine della stessa.


3.7 IL CORPO – ESTERNO E INTERNO - DELLA VILLA: ANALISI. Più che la seguente relazione, è l’allegato A – la documentazione fotografica – a dare il maggior contributo alla comprensione dello stato attuale in cui versa l’intero corpo della villa. Ciò nonostante seguirà una sommaria descrizione delle diverse parti che lo compongono.


3.7.1 La storia recente. La villa, nonostante i differenti proprietari che si sono avvicendati nel tempo, è rimasta disabitata per gran parte delle ultimissime decadi, cadendo nel più totale disuso che ne ha compromesso alcune funzioni basilari. Un esempio su tutti, l’avvenuto crollo del tetto di copertura a struttura lignea, probabilmente a causa dell’eccessivo carico procurato dall’accumulazione della neve durante l’inverno del 2012. Non possiamo sostenere con certezza se effettivamente il sovraccarico aggiunto della neve abbia causato direttamente il cedimento della capriata centrale, ma sicuramente ha contribuito al verificarsi di tale evento. Il cedimento della copertura e della capriata lignea centrale ha comportato lo sfondamento del solaio del secondo piano, e l’accumulo delle conseguenti macerie sul solaio del primo piano: col tempo, sia il carico aggiunto sia a causa soprattutto del continuo ed ovvio percolamento delle acque meteoriche, anche questo ha finito col cedere. Praticamente, ora dal piano terra della villa è visibile una porzione di cielo.
La villa infatti si sviluppa per tre piani fuori terra: il piano terra, il primo piano e infine il secondo piano, concentrato solo sulla parte centrale dell’intero complesso, probabilmente ospitante in passato la bigattiera. Entrando dall’ingresso principale, e spostandoci di qualche passo in avanti fino al centro della grande sala d’accoglienza del piano terra, notiamo che la luce si diffonde scendendo dall’alto. Alzando lo sguardo infatti vediamo il grande vuoto venutosi a creare dove prima c’erano i due solai interpiano e quello di copertura. Ora vediamo detti solai come se fossero sezionati, ne vediamo l’orditura strutturale e il pacchetto di finitura: restano i perimetri frastagliati generati dal collasso: non solo dei tre solai, ma anche dei due soffitti in camorcanna dei solai interpiano, ormai irrecuperabili (le macerie sono state rimosse). In alto, sul secondo solaio interpiano – che al momento è praticamente diventato una terrazza piana aperta all’esterno essendo crollato anche il solaio di copertura – scorgiamo parte della capriata lignea collassata, la cui testa del monaco sporge verso il basso dall’asola generata dal collasso. Per comodità descriveremo sommariamente l’organismo edilizio della villa scomponendolo nelle seguenti parti omogenee, così come indicato nelle N.T.A. del Comune di Jesi.


3.7.2 Coperture.


Manto di copertura. Non sappiamo dire con certezza se il manto di copertura sia in parte o in toto quello originale. C’è più di un elemento che lascia supporre il fatto che sia stato quantomeno integrato nel corso degli anni con nuovi elementi. Tuttavia, sicuramente non sono di recente fattura, e pensiamo sia possibile considerarli comunque antecedenti alla seconda metà del Novecento. Comunque il manto è costituito da coppi di foggia tradizionale, a sezione a “U”, grandi e pesanti, disposti a corsi alterni come le tecniche tradizionali del luogo insegnavano. Come accennato in precedenza, a causa dell’avvenuto collasso di circa i due terzi della struttura lignea della copertura dell’ex bigattiera, anche il relativo suo manto di copertura è andato distrutto e perso, ed è ora irrecuperabile essendo stato rimosso.


Comignoli. La villa presenta alcuni comignoli in muratura a facciavista con tetto in coppi a spiovente, posti in asse con i camini sottostanti.


Abbaini. Ne abbiamo uno, in corrispondenza della scala di servizio che sale fino all’ex bigattiera dal primo piano.


Cornicioni e spioventi. In alcuni tratti si sono conservati mantenendo integra la loro forma e sezione, in altri tratti – come ad esempio lungo il prospetto nord-ovest – versano in uno stato di maggior degrado, e sono a rischio crollo. Canali di gronda e discendenti pluviali. Lo stesso discorso vale per tali elementi metallici. Ancora peggio, in alcuni punti la manomissione dei discendenti ha provocato il convoglio delle acque meteoriche a ridosso della facciata, procurandole un degrado non solo superficiale ma anche potenzialmente statico (Foto E e F in calce alla relazione).


3.7.3 Facciate.


Superfici intonacate. Le uniche due superfici intonacate sono presenti al di sotto dei due archi presenti sulla parte sinistra (guardando la villa dal davanti) del prospetto sud-est. L’intonaco, la cui composizione chimico-fisica a base di sabbia e inerte di differente granulometria e calce è riconducibile a quella utilizzata fino alla prima metà del secolo scorso, si presenta degradato, in molti punti poco compatto e friabile, in altre aree invece ha mantenuto maggiormente la sua prestanza meccanica.


Superfici di mattoni a vista. Se si escludono le due superfici descritte qui sopra, costituiscono l’intero rivestimento del corpo esterno della villa. In sostanza si presentano in buono stato, ad esclusione di quei punti particolari dove il percolamento delle acque meteoriche, accentuato dalla manomissione delle gronde e dei discendenti, ha provocato una condizione di degrado superficiale non trascurabile: muschio e patina vegetale in superficie, infiltrazioni e ristagno d’acqua nella profondità del muro con conseguente formazione di fessurazioni e rigonfiamenti di varia entità.


Rivestimenti. La villa non presenta rivestimenti di sorta; o, al contrario, l’intero prospetto sud-est è un rivestimento in mattoni addossato al retrostante muro portante, sempre in mattoni. Su questa ipotesi torneremo più avanti.


Particolari architettonici. Possiamo considerare entro tale categoria il terrazzino sorretto da due colonne circolari in mattoni lisci e giunto di malta di connessione a raso, leggermente rastremate, e sormontate da capitelli in stile neo-dorico: molto probabilmente aggiunto alla facciata nella primissima parte del Novecento, è costituito da una lastra in cemento ornata nel perimetro da gole e tori, e conchiuso da una balaustra in ferro lavorata secondo semplici motivi geometrici (ora completamente arrugginita). Rientrano pure nella categoria dei particolari architettonici anche le tre fasce di marcapiani, uno tra piano terra e primo piano, un altro immediatamente sopra
che fa da base geometrica su cui poggiano le cornici delle finestre del primo piano e il terzo che fa da base geometrica su cui poggiano le tre finestre del secondo piano. Interrompendosi solo in prossimità delle lesene presenti in facciata, sono formati da due corsi orizzontali e paralleli di pianelle inserite nella facciata per coltello, separate da due corsi di mattoni. Il marcapiano tra il piano terra e il primo piano presenta una particolarità compositiva insolita: il suo percorso taglia letteralmente i mattoni che costituiscono i conci degli archi presenti in facciata. Anche su tale particolarità compositiva torneremo in seguito.


Tinteggiature e decorazioni pittoriche. Assenti.


Infissi. Le finestre non sono nelle condizioni di poter essere restaurate; alcune sono mancanti, altre rotte sia nei vetri (ovviamente singoli) che nei legni, così come le persiane tinteggiate di verde, aggiunte evidentemente in un’epoca non troppo lontana dalla nostra.


Elementi di finitura. Assenti.


Vani porta esterni. L’unico degno di nota sottolinea il portale ad arco dell’ingresso principale alla villa, posto al di sotto del terrazzino. Probabilmente realizzata con un impasto con presenza di cemento – dato il suo naturale colore grigio - è una cornice realizzata probabilmente anch’essa nei primi del Novecento ed è costituita da gole e tori, e al momento versa in uno stato di forte degrado materico e statico, presentando numerose mancanze.


Vani finestra esterni. Tutte le finestre della facciata principale (ossia il prospetto sud-est, dove troviamo il terrazzino e l’ingresso) sono sottolineate da cornici che, come già quella della porta d’ingresso sopra descritta, sono di colore grigio non uniforme, e probabilmente realizzate in un impasto contenente cemento. Tuttavia nessuna di esse presenta un livello di degrado così marcato come la cornice del vano porta. La trabeazione delle cornici delle finestre, pur nella loro semplicità compositiva e esecutiva, si distinguono rispetto ai piedritti che le sorreggono essendo più alte e con maggior aggetto rispetto al piano della facciata. I vani delle finestre presenti sugli altri prospetti invece sono esenti da queste cornici, e nella loro semplicità formale bucano semplicemente il muro perimetrale, restando ad esso complanari.


3.7.4 Spazi interni. Per semplicità descrittiva (e di catalogazione fotografica) abbiamo scomposto gli interni in 53 stanze: dalla 1 alla 26 si trovano al piano terra; dalla 27 alla 53 sono collocate al piano superiore mentre il secondo piano (l’ex bigattiera) è costituito da un'unica aula.
Vediamo comunque le principali stanze a cui possiamo abbinare l’ultima funzione che hanno svolto: ad esempio, al piano terra nelle stanze 11 e 12 dovevano trovarsi le cucine, visto che è presente ancora il focolare e alcune basi di cottura attraverso la piastra e la brace, nonché un pozzo; il complesso di stanze 19-20-21 invece doveva essere una stalla, o una scuderia; la stanza 1 ovviamente era una piccola cappella famigliare, una chiesa, e forse lo è ancora, visto che probabilmente è possibile che sia ancora consacrata (stiamo facendo delle indagini al riguardo); e così via.


Intonaci. Il loro stato di degrado varia notevolmente a seconda delle stanze a cui si fa riferimento. Ad esempio, le stanze un tempo utilizzate come stalle presentano un elevato livello di degrado degli intonaci, tanto che grandi superfici ne sono libere essendo questi in gran parte caduti a terra. Come già detto per quei pochi che stanno sulla facciata esterna, anche qui la loro composizione chimico-fisica è riconducibile a un composto a base di sabbia e inerte di differente granulometria e calce. Gli intonaci di altre stanze invece, come ad esempio quelli della stanza 8 o quelli di numerose stanze al primo piano, non arrivano a questi livelli di degrado, pur essendo comunque soggetti a fessurazioni e soprattutto alle muffe (es. stanza 38) dovute all’umidità, all’infiltrazione dell’acqua piovana e ovviamente al percolamento della stessa attraverso il tetto mancante e i due solai collassati.


Rivestimenti. Non abbiamo riscontrato la presenza di rivestimenti differenti dall’intonaco all’interno del corpo della villa.


Particolari architettonici. Non sono presenti particolari architettonici all’interno del corpo della villa, quali ad esempio stucchi in gesso. Gli unici che potremmo considerare tali sono le due piccole, semplici e alte cornici che si sviluppano in lunghezza sulle pareti che contengono le due aule centrali del piano terra e del primo (e il cui soffitto, ricordiamo, è stato sfondato).


Tinteggiature e affreschi. Gran parte degli affreschi è stata realizzata sui soffitti in camorcanna, e il loro stato, quando non sono andati completamente perduti nel tempo, versa quasi sempre in condizioni d’emergenza: delle stanze voltate con affreschi numerose sono quelle che presentano gli stessi deteriorati dal percolamento delle acque meteoriche (es. stanza 38) o compromessi nella loro unità da un quadro fessurativo su cui si dovrà sicuramente intervenire. Stesso discorso per quanto riguarda quelli realizzati sulle pareti, così come le tinteggiature di quest’ultime, realizzate con palette cromatiche in linea con i motivi affrescati, a seconda della stanza presa a riferimento. Al di là degli evidenti segni ed effetti del degrado che li hanno colpiti, c’è da dire che molti di questi affreschi appaiono rimaneggiati più volte nel corso degli anni, con pitture, tinte e tecniche differenti, e da mani non eccelse. Alcuni, presentando un quadro fessurativo preoccupante, sono stati ri-stuccati presumibilmente con pasta di gesso bianca in maniera dozzinale lungo le fessure che si sono aperte sulla loro superficie – cosa che ovviamente non ha ottenuto l’effetto sperato visto che le fessure si sono riaperte lungo le medesime linee. Alcuni affreschi presentano poi delle mancanze, delle lacune vistose, come ad esempio quelli raffiguranti i due personaggi di cui non conosciamo l’identità (e su cui non vogliamo prodigarci in ipotesi fantasiose) che sormontano i due varchi ai lati dell’altare di fondo nella chiesa (stanza 1).


Infissi. Difficile stabilire la datazione delle porte interne, lignee e tinteggiate di bianco o comunque con tinte tenui; molte delle quali poi sono evidenziate da cornici in rilievo rispetto al muro retrostante.


Elementi di finitura e stucchi. Facciamo ricadere sotto questa dicitura tutti i soffitti in camorcanna che rivestono gli intradossi dei solai di diverse stanze (es. stanza 6, 8, 35, 37, 40, 29...). Alcuni di questi soffitti si sono conservati in maniera discreta, presentando un quadro fessurativo tutto sommato risolvibile; altri che, data la vetustà, le problematiche statiche dei solai dopo descritte, e la presenza (nella facciata principale dell’edificio) di cinematismi di ribaltamento, presentano lesioni e fratturazioni diffuse dello stuoiato e dell'intonaco intradossale, che in alcuni casi sono sfociati in crolli parziali, causati sia da condizioni locali come queste spiegate (es stanza 46, dove ora resta visibile il solaio di copertura in travi tipo Varese e tavelloni industriali in laterizio forato; o il soffitto del corpo scala, dove ora è visibile la cannucciata su cui era aggrappato il soffitto in calce e gesso) sia da eventi di carattere più generale – come l’avvenuto sfondamento di tutti i solai della sezione centrale della villa a probabile causa del sovraccarico neve, come già spiegato. E altri ancora che presentano un livello di degrado non solamente statico ma anche materico, superficiale, essendo stati sottoposti a percolamento e infiltrazioni d’acqua meteorica e umidità (es stanza 38, verso nord, completamente invaso dalle muffe).


Pavimenti. Mentre al piano primo i pavimenti in pianelle in cotto che presumiamo originali (altri sono banali superfetazioni di epoca recente) si sono conservati relativamente in discreto stato (e non presentano evidenti segni di degrado (se non quelli scaturiti da altre problematiche circostanziali, legate al degrado dei solai), al piano terra la situazione cambia. Qui gli unici pavimenti originali che si sono conservati – e non sempre in buono stato – sono quelli presenti nella stanza 13, nella stanza 8 e nella stanza 6: pezzi quadrati in pietra biancastra alternati a pezzi quadrati di pietra nera (nella stanza 13) o rossastra (nella stanza 8 e 6), disposti a scacchiera (romboidale nella 13, quadrata nelle altre due). Il loro livello di degrado però non è basso, e molti presentano problematiche difficilmente risolvibili. Al di là di questi resti parziali, o abbiamo dei pavimenti battuti in terra (es. stanze 19-20-21) o realizzati con pianelle sconnesse in laterizio, direttamente appoggiate sul terreno (es. stanze 16, 17, 18; 22, 23, 24; 25, 26). Infine, i massetti e le pavimentazioni riguardano anche l’analisi statica dei solai, in quanto non sono regolari per tutte le specchiature di questi ultimi, e variano in spessore e tipologie: pertanto andranno valutati da caso a caso, poiché incidono significativamente in termini di carichi portati.


Tramezzature. Ci sono ben pochi tramezzi all’interno della villa, e quelli che ci sono, sono intonacati; pertanto non si lasciano leggere in maniera soddisfacente nella loro integrità.


3.7.5 Apparato strutturale.
Schema statico e stereometria. Si caratterizza per una elementare stereometria muraria generata dall’incrocio tra la muratura perimetrale e i muri interni trasversali ad essa, che in diversi casi si risolvono in archi: il risultato è una ritmata sequenza di scatole murarie chiuse su se stesse.


Fondazioni. Abbiamo eseguito un’indagine conoscitiva dello stato in cui versano le fondazioni attraverso dei sondaggi mirati ad accertarne la presenza, la profondità e la composizione. Le trincee fatte in vari punti posti nel perimetro esterno dell’edificio hanno evidenziato la presenza di fondazioni nastriformi in muratura aventi una profondità che varia da parete a parete da 100 cm a circa 155 cm (vedi la relazione preliminare geotecnica). Le trincee fatte invece in corrispondenza delle pareti interne hanno evidenziato sia la presenza di fondazioni nastriformi aventi, in alcuni casi, una profondità di circa 70/80 cm e in molti casi una profondità che varia da circa 40 cm a circa 20 cm, che la loro totale assenza (vedi relazione preliminare geotecnica). Tale elevata difformità di quote, in particolare nei muri interni, fa sì che essi poggino su un terreno vegetale non coeso, e quindi non in grado di sopportare i carichi verticali delle strutture soprastanti; di conseguenza, anche i sovraccarichi prodotti dall’utilizzo futuro dell’immobile, che avrà una destinazione pubblica. 


Grotte. Seppur per un breve tratto, la villa si articola anche a livello ipogeo, attraverso un lungo corridoio a S, il cui perimetro si sviluppa in una serie di nicchie voltate, ed il soffitto in una serie di volte a crociera. Com’è noto, il loro scopo era funzionale alla conservazione di certe derrate alimentari. Da un primo e rapido rilievo preliminare, le grotte rappresentano al momento un enigma di difficile risoluzione, e verranno appositamente analizzate dal punto di vista statico in modo da intervenire nella maniera più opportuna in vista di una loro piena conservazione e futuro utilizzo.


Muri portanti. Analizzando le tipologie dei vari paramenti murari abbiamo osservato che c’è una sostanziale disomogeneità per quanto riguarda la loro caratterizzazione tipologica nei seguenti macroelementi: 1) Le pareti perimetrali hanno spessori che variano da 30 a 55 cm circa, anche se mediamente presentano una tessitura pressoché omogenea ed i giunti di malta risultano in buone condizioni. 2) Le pareti interne hanno spessori che variano da 15 a 40 cm circa, presentano una tessitura non omogenea e si notano varie zone con in cui la muratura presenta perdita di legante tra i giunti di malta. L’analisi dello stato generale delle murature è stato condotto valutando le stesse dal tipo di ammorsamento nel terreno attraverso degli scavi in corrispondenza del perimetro esterno e in corrispondenza dei vari maschi interni dell’edificio (come detto poco sopra nel paragrafo Fondazioni), fino a giungere allo studio delle diverse tipologie in elevato. Dall’analisi delle fondazioni si nota infatti che i maschi interni sono quelli aventi uno stato fessurativo più marcato, aggravato da vari mutamenti subiti nel tempo, con aperture e chiusure di passaggi non adeguatamente risarciti, ed eseguiti senza tener conto di alcun allineamento da piano a piano (analizzati nel capitolo 4). Altri elementi significativi inerenti i muri portanti sono: 1) la presenza di numerosi architravi, con lesioni e fratturazioni evidenti, causati dal carico eccessivo sovrastante e acuitesi da eventi sismici nel tempo e dalle attivazioni di cinematismi delle murature ortogonali tra loro; la presenza di tali fratturazioni è molto grave, poiché determina l’assenza di connessioni tra i maschi murari ed il conseguente effetto scatolare della struttura; 2) la presenza di rotture per taglio, soprattutto al primo piano, nelle fasce di piano ovvero nei sottofinestra e nei soprafinestra anch’essi confermano l’attivazione di cinematismi nella parete; 3) nelle zone di collegamento tra le falde di copertura e la parete corrispondente, si possono osservare ampie zone dove la testa delle mutature è completamente imbevuta d’acqua causando la totale perdita di capacità legante della malta, ciò è dovuto alla assenza di impermeabilizzazione del tetto e della mancata manutenzione delle grondaie (ormai quasi totalmente crollate e danneggiate) che convogliano le piogge lungo la parete stessa.


Volte. Le uniche volte strutturali le troviamo nella copertura delle grotte, discusse poco sopra, e quindi anche per tali parziali elementi vale il medesimo discorso generico fatto per quello spazio nella sua interezza.


Solai. Del crollo che ha interessato la parte centrale della villa abbiamo già discusso, e lo diamo per assodato. Al di là di quell’evento che ha stravolto la fisionomia interna della villa, diciamo che essa è sprovvista di qualsivoglia tipo di solaio contro terra: come descritto più avanti, qui i pavimenti, o per meglio dire quello che ne resta, se e dove sono presenti, sono poggiati direttamente sul terreno. Pertanto l’analisi statica di tali strutture interessa in particolare i due solai interpiano (di quello di copertura parleremo nell’apposito paragrafo). Il panorama dei solai in questo edificio è estremamente variegato se visti nel dettaglio e presi in considerazione singolarmente – ad esempio, ne troviamo uno realizzato in tavelloni industriali poggiati su travi prefabbricate in cemento armato tipo Varese (stanza 20), altri che, nello spazio della luce che coprono, presentano una tale diversità di foggia delle travi che lascia perplessi. È evidente che, come altri elementi della villa, anche l’immagine dei solai attuali è il prodotto di complesse e determinate stratificazioni storiche. Tuttavia tutti sono riconducibili alle seguenti caratteristiche statiche di base: in generale sono costituiti di una struttura principale composta da travi di legno di varie essenze e di varia foggia, con interasse variabile dai 90 ai 120 cm circa (per quanto si è potuto osservare da una prima indagine conoscitiva). Le orditure secondarie ai vari livelli si presentano pressoché identiche, con filetti a distanze regolari si circa 35 cm circa e pianelle in cotto. Lo stato attuale degli orizzontamenti dell’edificio in esame, presenta un evidente ammaloramento generale tale da compromettere l’utilizzo degli stessi, e quindi l’accesso a numerose stanze in varie parti dell’edificio. Si può notare come le cause di un tale quadro fessurativo e di degrado, siano riconducibili alla totale mancanza di manutenzione nel tempo, notevolmente aggravata poi dal crollo di gran parte della copertura centrale che ha causato l’ovvia infiltrazione delle acque meteoriche (per ciò che si può osservare da una prima indagine conoscitiva), nonché come detto dalla mancanza di un vero e proprio solaio al piano terra che ha di fatto determinato la presenza di umidità dal basso, specie nel periodo invernale. In molti casi si possono notare solai con sezioni ed interassi della struttura principale, non omogenei e non adatti a sopportare i carichi verticali permanenti ed accidentali, ciò unito alla mancanza di un piano rigido superiore ha determinato uno scarico non omogeneo delle azioni sovrastanti, e quindi delle concentrazioni di carichi, sulle murature sottostanti. Tali valutazioni sono dimostrate dalle evidenti deformazioni degli elementi strutturali, specie se osservati dal basso del piano terra, che ai piani superiori con lesioni e fratture delle pavimentazioni, o in alcuni casi il crollo dei solai stessi e dalle numerose lesioni tipiche da schiacciamento, sulla testa delle murature in corrispondenza dei punti di appoggio delle travi.


Strutture del tetto. Abbiamo due solai di copertura: quelli che costituiscono le coperture laterali e quello che copre – anzi, copriva – la parte più alta della villa. I primi presentano un interasse che oscilla tra i 120 e i 140 cm circa, mentre il secondo presenta, o per meglio dire presentava – considerato l’avvenuto crollo e visto che al momento ne resta in opera circa 1/3 della sua precedente interezza – una struttura principale con capriate in legno e terzere di interasse circa 250/300 cm le prime e 100 cm circa le seconde. Le orditure secondarie si presentano pressoché identiche, con filetti a distanze regolari si circa 35 cm circa e pianelle in cotto.


Corpo scala. L’edificio presenta due corpi scala principali. Il primo sito nell’ala laterale, e svolge la funzione di mero servizio di collegamento tra uno degli accessi secondari del piano terra posto sul lato nord, al il primo piano. Essa ha una struttura in travi e travetti di legno ed un pianellato in cotto; da una prima indagine non si riscontra un eccessivo degrado degli elementi strutturali, se non in un ammaloramento generale superficiale degli elementi lignei dovuto alla vetustà ed alla mancata manutenzione degli stessi. Il secondo, è il corpo scala signorile della villa, posto centralmente alla pianta dell’edificio, collega dal piano terra fino all’ultimo le stanze ed i locali di maggior pregio. E’ costituito da una struttura a “C” a voltine rampanti in foglio in laterizio e da travi e travetti di legno con pianellato a formare i vari pianerottoli. Lo stato attuale presenta varie zone dove sono visibili fratturazioni e lesioni delle voltine e un ammaloramento avanzato degli elementi lignei, tanto che in alcuni sono visibili crolli e deformazioni tali da impedirne l’accesso, ed ovviamente qualsiasi tipo di utilizzo. 


3.7.6 Impianti. La villa è stata dotata di un’impiantistica funzionante fino a pochi anni fa, e tutt’ora presenta dei contatori enel allacciati. Al di là di ciò, anche se presenti (o quantomeno quello elettrico) gli impianti non sono ovviamente a norma. L’impianto di riscaldamento è quasi del tutto assente, mentre quello idraulico e fognario è presente, anche se ancora da rilevare nella sua disposizione.


3.7.7 Sistemazioni esterne. Escludendo il giardino e l’intero parco, le uniche sistemazioni esterne sono costituite dai marciapiedi, in gran parte mancanti o fortemente degradati. Essendo costituiti da una soletta in cemento armato con tondini lisci di ferro, si presume che i marciapiedi siano stati introdotti quantomeno durante la prima metà del secolo scorso – come ipotizzato per il terrazzino su colonne. Quelli che restano sono rivestiti da un pavimento in pianelle di cotto, in gran parte mancanti, ricoperte da patina vegetale o rotte.


 


CAPITOLO 4: ANALISI CRITICA DELLO STATO DI FATTO DEL CORPO DELLA VILLA: LE TRACCE PRATICHE DELLA SUA TRASFORMAZIONE


Conducendo accuratamente l’indagine sull’intero corpo della villa sono state riscontrate numerose particolarità che potrebbero nascondere risvolti insoliti nonché interessanti chiavi di lettura in vista della formulazione della nostra ipotesi progettuale di restauro.


“[...] mi sembra doveroso sottolineare almeno il ruolo, non unico ma sicuramente centrale, delle indagini condotte direttamente sull’opera da restaurare le quali costituiscono, tra l’altro, una competenza prevalente dell’architetto. Esami approfonditi, prolungati e ripetuti quanto è necessario sulle consistenze materiali del monumento, facilitano la lettura delle altre fonti, permettono di specificarne i caratteri costruttivi e stilistici e di comprenderne, in buona misura, processi formativi per le azioni restaurative. Emerge quindi con chiarezza un modo, tanto ovvio quanto fondamentale di utilizzare il materiale acquisito, attraverso l’azione di ricerca diretta e indiretta, nel concreto intervento di restauro. Un impiego delle conoscenze che non può essere meccanico e diretto ma che, viceversa, deve anche essere filtrato attraverso la “cultura del restauro” propria del nostro tempo”15.


4.1 CASO 1: LA POSIZIONE ORIGINARIA DEL PROSPETTO SUD-OVEST. Prendiamo in esame i muri interni della stanza 21, in particolare quelli orientati verso sud-ovest (evidenziati nella Tavola 3); osservando attentamente i parametri di questi ultimi ci si accorge che sono il risultato di una complessa serie di addizioni storiche, difficilmente databili. In sostanza, il muro come lo vediamo oggi è costituito da una successione (accumulatasi nello spazio e nel tempo) di tamponature che ora, essendo venuto meno l’intonaco, si lasciano individuare nei loro profili, come riportato sulla pianta del piano terra dello stato attuale della villa (Tavola 3). Una serie di fessure che non sono direttamente dovute a degrado strutturale (e che quindi non rientrano nell’analisi del quadro fessurativo causato in genere da movimenti dei macroelementi che dovrebbero essere invece solidali), ma indicano un mancato legame intrecciato tra i mattoni pieni del muro. Ne riscontriamo circa cinque nella sola parete di sud-ovest della stanza 21, su cui si nota anche la sovrapposizione di differenti architravi: quel muro è il risultato di una complessa stratificazione di tamponature alternatesi nel corso del tempo. La
stessa caratteristica la possiamo riscontrare nella stanza 19, sempre sul muro interno che guarda verso sud-ovest. Anche qui sono presenti tutta una serie di fessure dovute al mancato legame intrecciato dei mattoni pieni della muratura, e in sommità la traccia di un arco, ora tamponato (Allegato A, Documentazione fotografica, Stanza 19, Pov 3).


Riassumendo, sembra quindi che l’intero muro che attualmente separa le stanze 19, 20 e 21 dalle stanze 22, 23 e 24 sia il risultato di complesse stratificazioni, una serie di aperture e tamponature chiuse e riaperte a seconda del momento storico e della funzione che dovevano assolvere.


Abbiamo anche sostenuto che le stanze entro cui affaccia tale muro erano adibite a stalle (o scuderie, comunque ricovero per animali: né è dimostrazione anche il fatto che le due putrelle in ferro poste empiricamente di traverso ai muri perimetrali in modo da puntellare il solaio soprastante e ridurne la freccia siano state profondamente corrose non solo dall’umidità, ma soprattutto dal fiato e dai miasmi dei liquami degli animali – Allegato A, Documentazione fotografica, Stanza 19, Pov 3, 18).


Alla luce di ciò possiamo avanzare una prima ipotesi relativa a tale questione: e se questo muro, che ora è interno, trasversale alle mura perimetrali, in un dato momento storico fosse stato esterno? E’ realistico ipotizzare che sia stato – per un determinato periodo, magari nella fase iniziale della vita della fabbrica – il prospetto sud-ovest? È possibile che quelle che erano un tempo le stalle fossero affacciate verso l’estero anche sul lato sud-ovest? Se la spazialità interna della villa, e i suoi prospetti, fossero stati così come si presentano oggi fin dall’inizio, da dove entravano e uscivano gli animali? Le attuali aperture sul prospetto nord-ovest in prossimità delle ex stalle non sembrerebbero state pensate per quella precisa funzione.


Rispondiamo quindi che non solo non è impossibile, ma altamente probabile, anche se ciò comporterebbe il non trascurabile fatto che due ulteriori moduli stereometrici (quelli ora contenenti le stanze 22, 23, 24, 25 e 26) sarebbero in seguito stati aggiunti e costruiti verso sud-ovest, chiudendo e trasformando di fatto quello che era il prospetto esterno originario (ora risultato denso di stratificazioni e tamponatura sovrapposte) in un muro trasversale interno. E se tutto questo è vero, in quale momento storico è avvenuto? Appare evidente che ad un certo punto si è innescata una trasformazione del corpo di fabbrica originario, quel casale evocato dal professor Bonasera a cui abbiamo fatto inizialmente riferimento.


4.2 CASO 2: DIETRO LA FACCIATA. Prendiamo ora in considerazione il muro che affaccia verso sud-est, sempre interno alla stanza 21. Anche qui notiamo delle fessure di tamponature non legate, due per la precisione, e soprattutto un evidente architrave in legno che sormonta la piccola finestra con grata metallica, ma al contempo si prolunga nel muro ben oltre la misura della stessa finestra, fino a arrivare al di là della fessura di tamponatura più vicina allo spigolo interno della stanza 21 (Allegato A, Documentazione fotografica, stanze 19-20-21, Pov 12 e 20). Qui è più che evidente il fatto che la tamponatura sia stata aggiunta per chiudere una preesistente grande apertura verso l’aia esterna, che doveva essere un altro portale d’accesso e di uscita per gli animali delle stalle. Questo apre un ulteriore scenario inerente la vera natura della facciata principale anteriore (il prospetto sud- est).


4.3 CASO 3: LA FACCIATA SOVRAPPOSTA. Infatti, se quanto detto è riconducibile al vero, ciò comporterebbe che la facciata del prospetto sud-est così come la vediamo oggi, il fronte principale, ritmata uniformemente da archi in mattoni addossati e lesene, in realtà è una realizzazione successiva al corpo originario dell’edificio; quanto successiva non è dato saperlo con esattezza, anche se, notando la sua composizione, probabilmente si tratta di un’aggiunta ottocentesca – anche in calce alla fotografia trovata nella tesi di laurea che abbiamo citato agli inizi era riportato il secolo XIX.


Cerchiamo di spiegarci con più chiarezza analizzando la composizione della facciata. Di essa notiamo subito la scansione ritmica dovuta alle lesene, che la scompongono in settori ben individuabili. La prima idea che esse suggeriscono è il sistema statico sottostante, la stereometria; ma guardando con più attenzione il corpo della villa ci si accorge però che tra queste e i muri strutturali interni, e quindi la composizione degli spazi, non c’è alcuna relazione – eccetto le lesene che salgono verso l’alto fino a incorniciare, da terra al tetto, l’intero volume centrale del fabbricato (Tavola 3). Le altre sono semplicemente degli elementi architettonici puramente decorativi, funzionali alla scansione e alla composizione del costante e immutabile ritmo di facciata – il che, come detto, la qualificherebbe come intervento di matrice neoclassica.


Anche gli stessi archi che vediamo comporre la facciata nella sua parte di sinistra sono decorativi, senza alcuna funzione statica, e hanno il solo scopo
di ricreare una simmetria di facciata. I mattoni (cunei) che compongono la linea dell’arco sono addirittura tagliati dai marcapiani, come descritto nel precedente capitolo 3 (paragrafo 3.7.3), a dimostrazione della loro funzione puramene simbolica e decorativa (Foto G in calce alla relazione).


Dalle primissime operazioni di rilievo sul campo, e dai piccoli saggi fatti in prossimità dei (finti) piedritti di tali archi in mattoni della parte sinistra della facciata principale a sud-est, avevamo inizialmente ipotizzato che questa in effetti fosse costituita semplicemente da una parete di mattoni pieni ad una testa, senza alcun legame, senza alcuna cucitura con la parete retrostante in mattoni pieni, muratura grossomodo larga dai 30 ai 55 centimetri. Successivamente, ulteriori e più approfondite verifiche hanno portato alla luce la presenza di differenti punti di legame tra la facciata a una testa e il muro portante retrostante: tuttavia tali legature non seguono una griglia d’aggrappo precisa e regolare ma appaiono randomizzate e di numero scarso, o quantomeno al di sotto delle normali aspettative. Ciò ci suggerisce che, anche se non completamente disgiunta dal muro retrostante, la facciata che oggi vediamo sia stata realizzata in una fase successiva al corpo originario dell’edificio: durante l’evoluzione del casale in villa?


4.4 CASO 4: L’ENIGMA DELLE FONDAZIONI. Ci sono altri elementi che possono portare maggior chiarezza alla questione evolutiva: anche se poco legata, e in maniera non uniforme, comunque la facciata poggia e scarica il suo peso sul piede di fondazione. Ciò vuol dire che queste – le fondazioni – sono state realizzate già pensando che avrebbero dovuto sostenere anche il peso e la larghezza di una facciata aggiunta? Di fatto, dai sondaggi eseguiti emerge che il piede di fondazione è sempre largo quanto la parete fuori terra che supporta, per tutto il perimetro; anche lungo il prospetto nord-ovest, dove non abbiamo una facciata sovrapposta con ritmi scanditi da archi e lesene, ma semplicemente la parete portante articolata dalle sole bucature delle finestre, troviamo che il piede di fondazione non si allarga mai verso l’esterno più del necessario, ma resta sul piano verticale della parete soprastante.


4.5 CASO 5: TRA CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’. Un altro di questi elementi si trova sul prospetto nord-ovest della villa, sul retro insomma. Qui, a circa
8,80 metri dallo spigolo che punta verso ovest, notiamo una evidente mancanza di cucitura tra il parametro murario di destra con quello di sinistra (Foto A in calce alla relazione) – i mattoni che legano le due parti si trovano soprattutto in alto verso il cornicione. Appare come se fossero state realizzate in fasi differenti, come se l’intero volume di destra fosse stato aggiunto successivamente e legato all’altro solamente in qualche punto: i due moduli stereometrici già citati in precedenza. Questo almeno è quello che spontaneamente si deduce osservando quel giunto costruttivo.


Tuttavia per avere piena conferma di questa ipotesi aggiuntiva abbiamo eseguito un indagine anche sul piede di fondazione sottostante il giunto: se anche qui il giunto fosse proseguito fino in profondità, ossia avesse interessato anche la fondazione, allora l’ipotesi avrebbe trovato piena conferma; ma una volta eseguito il piccolo scavo necessario all’indagine abbiamo inaspettatamente riscontrato che la fondazione era – ed è – continua. Quindi: un muro portante fuori terra discontinuo lungo tutta una linea verticale poggiante però su un piede di fondazione continuo. Perché mai, se realizzati nella medesima fase costruttiva, i costruttori non avrebbero dovuto legare i mattoni tra loro come nel resto dei parametri murari? Avrebbe poco senso, anche da un punto di vista strettamente pratico: immaginate la scomodità nel tirar su, grossomodo contemporaneamente, due brani di muro portante complanari ma slegati tra loro; e perché poi legarli solo in sommità? Come leggere tutto questo? È possibile che inizialmente le fondazioni siano state realizzate nella loro intera lunghezza perimetrale (quella che vediamo oggi), ma poi i volumi fuori terra siano stati realizzati in una fase successiva, lasciando parte delle stesse interrate, senza che svolgessero la loro funzione statica? E che questa sia stata soddisfatta solo in un secondo momento storico, ossia quando s’è avviata la trasformazione del corpo iniziale in quello definitivo della villa?


4.6 CASO 6: LA VILLA COME INSIEME DI PARTI La trasformazione del corpo della fabbrica iniziale nella villa pensata dal Bonasera che abbiamo sotto gli occhi oggi potrebbe essere supportata anche da un’ulteriore fatto. Prendiamo in esame il volume della chiesa posta come ultimo macroelemento, il cui lato lungo esterno costituisce l’attuale prospetto nord-est. Oggi la chiesa ci appare come completamente integrata all’intero corpo di fabbrica della villa (che a sua volta appare un tutt’uno uniforme, quando al contrario abbiamo
avanzato l’ipotesi suffragata da prove concrete che non è esattamente così); tuttavia, guardando più attentamente i parametri murari che si estendono sul retro della stessa (prospetto nord-ovest) si possono intravedere dei giunti di malta che disegnano un preesistente profilo a doppia falda simmetrica, di altezza inferiore rispetto all’attuale cornicione, nonché – anche qui – un giunto verticale (a circa 5 metri dallo spigolo nord dell’edificio) che da terra sale fino all’incrocio del segno di una di queste profili di falde ora sfumati nell’insieme (Foto B in calce alla relazione). Tale profilo e tale giunto sono ora inglobati nella partitura muraria del retro della chiesa ma è comunque ben distinguibile: è come se un volume preesistente, più basso e con un tetto a doppia falda simmetrica, staccato dal corpo principale più grande immediatamente a fianco, fosse stato inglobato attraverso un nuovo intervento in esso, occludendo anche una piccola finestra ellittica posta sul retro. Anche questo potrebbe essere un elemento che verte a favore dell’ipotesi evolutiva del corpo di fabbrica da casale a villa (insieme all’allargamento verso sud-est e alla nuova facciata neoclassica). Non possiamo sapere se questa piccola pertinenza fosse già prima dell’annessione al corpo principale una cappella (Francesco Quinterio ricorda che durante il periodo neoclassico “all’interno di molte tenute marchigiane, una volta proceduto alla realizzazione della chiesetta o cappella, [questa era] sempre staccata dal corpo principale, possibilmente isolata o quanto meno inserita in un’ala o in un blocco”16). Tuttavia resta insolita la presenza di un piccolo campanile a vela posto in sommità della linea di colmo del tetto di copertura, in direzione nord-est. È allora più plausibile che quella piccola pertinenza poi inglobata fosse stata una rimessa e la chiesa – se presente – fosse stata già presente all’interno del perimetro del primo corpo di fabbrica costruito (ricordiamoci della posizione insolita – ad oggi – della veletta del campanile rispetto all’attuale posizione della chiesa).


Al di là di questo, quella che abbiamo chiamato la questione della chiesa ci aiuta a supportare ancora una volta le ipotesi avanzate nei tre punti di cui sopra: la villa attuale ci appare sempre più come un traguardo raggiunto a fasi alterne, nel tempo, e attraverso massicci interventi sul corpo originale della fabbrica.


Anche il vuoto lasciato nell’angolo nord della pianta è alquanto insolito, come se non fosse stato necessario, durante il processo di allargamento della pianta originaria e di inglobamento della preesistenza poi divenuta chiesa, trasformarlo in un volume chiuso: in effetti, nell’ottica neoclassica
ottocentesca, periodo durante il quale abbiamo ricondotto queste fasi evolutive fin qui descritte, l’attenzione compositiva era tutta delegata e concentrata nella facciata di rappresentanza.


4.7 SINTESI: LA VILLA-PALINSENTO. Alla luce di tutto ciò possiamo dare supporto e concretezza a tre ipotesi finora solamente teoriche: 1) la villa come la vediamo oggi non nasce materialmente come tale, ma presumiamo fosse un casale agricolo di dimensioni ridotte rispetto a quelle attuali; 2) la villa nasce potenzialmente come tale, nel senso che era già contenuta nelle intenzioni progettuali iniziali – come impianto spaziale e volumetrico – ma compie la sua evoluzione fisica in una fase successiva – probabilmente (analizzando la composizione della facciata sud-ovest) nell’Ottocento; 3) la villa diventa architettonicamente tale modificando radicalmente il corpo di fabbrica iniziale di partenza, negli spazi, nei volumi, e soprattutto nei particolari architettonici.


Prendiamo in esame le finestre: noteremo che molte sono state spostate, riallineate tra loro, e le tracce di tali operazioni sono visibili sui parametri murari, ad esempio la finestra sopra l’ingresso della chiesa (prospetto sud-est) (Foto C in calce alla relazione); o ancora, sulla facciata retrostante (prospetto nord-ovest) (Foto D in calce alla relazione): tutte le preesistenti bucature hanno subito una modifica ai fini della trasformazione del casale in villa. In più, quelle della facciata principale sono state anche dotate di cornici con trabeazione, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente.


Questi appena descritti sono ulteriori elementi che ci conducono sempre alla medesima risposta: la villa, intesa nel suo volume, pur muovendo le intenzioni iniziali dei costruttori, si è manifestata in una fase successiva a quella del casale, attraverso il completamento dei moduli dei volumi, il riordino assiale delle bucature delle finestre e soprattutto il disegno della facciata principale (il prospetto sud-est). Sul perché si siano realizzate le fondazioni in continuità per poi rimandare l’ulteriore alzato nel tempo potremmo solo formulare n ipotesi, e tutte in egual misura labili; è impossibile arrivare a una risposta certa, e in fin dei conti non è neanche così importante ai fini della nostra ricerca.


Quella breve dichiarazione del professor Bonasera citata agli inizi appare, alla luce di quanto esposto, sempre più convincente e veritiera: di fatto, ci
sono buoni elementi riscontrati sul campo che ci hanno fatto ipotizzare che effettivamente la villa storica Marcelli-Flori è il risultato di una mutazione intercorsa ad una preesistenza architettonica avente differente funzione. Ciò che ci interessava dimostrare crediamo sia stato dimostrato a sufficienza: certo, di per sé non è una verità scientifica, ma riteniamo comunque che sia oggettivamente e più che sufficientemente forte da supportare quanto andremo a proporre nel progetto di restauro e non solo. Dopotutto “[...] l’architetto è abituato a trovare nella storia un supporto sostanziale alla sua operatività, in virtù di un particolare modo di studiarla e di impiegarla. Egli infatti studia la storia non soltanto come fonte di conoscenza, ma anche per utilizzarla praticamente. Infatti la storia, intesa quale procedimento di lettura e di comprensione storico-critica, permette di porre in luce i modi organizzativi delle fabbriche e di acquisire una comprensione vitale anche in relazione alle loro procedure formative. Un’utilizzazione quindi della storia soggettiva strumentale e, in qualche misura, tendenziosa; un patrimonio di dati del quale l’architetto si impossessa per restituirlo, selezionato e trasfigurato, nelle proprie opere. Un impiego che sottintende, con tutta evidenza, un rapporto fra storia e progettazione e che segna una strada particolarmente vivificante capace di suscitare le imprese più insperate e originali e tuttavia anche aperte ai rischi di arroccamenti accademici che si estrinsecano in un rapporto raggelato, privo di vitalità fra la regola e le sue applicazioni. In sostanza, una storia intesa come lascito che l’architetto manipola per definire un prodotto trasformato dalle proprie idee al punto da non mostrare spesso alcuna affinità con il modello di partenza”.17


Ecco che allora tutti i tasselli, tutti gli indizi riscontrati nella nostra indagine finora si risistemano relazionandosi tra loro, andando a comporre questo più autentica visione d’insieme: la villa Marcelli-Flori, lungi dal contenere in sé le categorie di unità, originarietà e omogeneità stilistica è un autentico palinsesto stratificato che denuncia la propria natura di contenitore, nel tempo, di usi differenti e quindi soprattutto di evidenti trasformazioni, stratificazioni e aggiunte architettoniche, sempre motivate da una necessità, una funzione contingente.


 


CAPITOLO 5 (INTERMEZZO): IL COMMIATO E IL SUO SPAZIO


Dopo aver raccolto tutta questa gran mole d’informazioni sullo stato di fatto in cui versa in questo momento l’intero ecosistema della villa Marcelli-Flori, e sulla sua dinamica evolutiva nel corso della storia, ci troviamo potenzialmente nelle condizioni di avanzare una seria proposta progettuale in previsione del suo pieno recupero.


Tuttavia, per inquadrare con ancor più precisione e con la dovuta sensibilità la corretta tipologia di restauro da adottare, resta da argomentare la nuova funzione che la villa stessa dovrà ospitare (tenendo conto di quanto scritto nella Premessa), poiché essa – nel caso specifico – sarà determinante nel progettare il restauro, nel decidere quali strade del complesso mondo del restauro battere e quali invece abbandonare. Come detto fin dall’inizio infatti, lo scopo del recupero della villa è in primo luogo la sua riconversione a casa del commiato: andiamo pertanto a descrivere questa particolare tipologia di attività commerciale.


5.1 CONSIDERAZIONI GENERALI SULLE FUNERAL HOME. Provenienti dai paesi anglofoni, presenze diffuse soprattutto nello sprawl statunitense, le funeral home hanno punteggiato ormai da qualche tempo anche il paesaggio urbano della penisola italiana, intaccando dapprima la pianura padana per poi spingersi più a sud, magari innestandosi su imprese funebri già esistenti, offrendo tutti i loro servizi inerenti a un decoroso trattamento della salma dell’essere umano defunto, e vestendosi spesso – come nel caso in questione – della più poetica dicitura di “casa del commiato”: se si vuole, una terminologia più umana rispetto a quella inglese, semplice e forse meglio adatta a esprimere in due chiare ma profonde parole l’intimo – e al contempo universale pur nelle differenze – momento della morte, del lutto e del distacco.


Pare che il fenomeno sia in costante crescita: ovviamente in questa sede ci siamo limitati a prenderne atto e a registrarlo in quanto tale. Di certo le ragioni per cui anche in Italia (paese con un particolare retroterra storico in cui affondano e si mescolano – spesso confusamente – tradizioni del rito cattolico ed echi di religiosità contadino-pagane, cultura classica di matrice greco-romana, preteso laicismo e innesti di culture e tradizioni religiose altre portate dalle migrazioni) è riuscito a prendere campo sono tutte da ricercare e studiare al contempo. Al di là dell’ovvia ragione economica e
quindi dell’offerta di un servizio funebre completo, è da registrare la volontà da parte delle imprese di dotarsi di strutture idonee e accoglienti che sappiano anche sopperire (e quindi sfruttare) le manchevolezze di quelle pubbliche (sia sanitarie che cimiteriali): ed è in tal modo che spesso e magari involontariamente riescono a sottrarre la morte – il lutto, la perdita e il dolore – alla generalizzata rimozione o anestetizzazione estetica che ne fa la società contemporanea, per ricollocarla in una dimensione urbana e sociale condivisa, non più nascosta tra le mura domestiche.


5.2 L’ELENCO DELLE FUNZIONI. In generale, non essendosi ancora dotata di una legge ad hoc inerente tali strutture, la regione Marche le inquadra all’interno della Legge Regionale 20/2000, trattando la materia cioè come una qualsiasi altra struttura socio-sanitaria, anche se da questa differisce in maniera sensibile sotto vari aspetti. Comunque sia, una casa del commiato è innanzitutto una struttura aperta al pubblico che necessita quindi di avere in primo luogo i requisiti di accessibilità e visitabilità con tutto quello che ne consegue, e deve rispondere a precisi parametri di natura igienico- sanitaria, con differenti stanze dedicate ai singoli scopi.


Passando da un discorso generico al nostro caso specifico, la casa del commiato che verrà ospitata dalla villa Marcelli-Flori sarà dotata dei seguenti spazi: al piano terra avremo quattro camere ardenti (o sale per le onoranze funebri al feretro), due delle quali (Tavola 6, Rif. 20, 21) all’occorrenza possono sdoppiarsi e quindi raddoppiare di numero, un laboratorio di tanatoprassi (contenente inoltre una sala di osservazione e sosta salme, i servizi igienici per il personale e gli spogliatoi), i servizi igienici per il pubblico, una sala di ristoro, una sala d’aspetto, due uffici di rappresentanza, una cappella. Il piano primo invece ospiterà un grande ufficio direzionale, ulteriori servizi igienici per il pubblico, due camere per possibili pernottamenti, altre due camere ardenti e uno showroom. L’ultimo piano invece ospiterà la camera ardente più grande, mentre le grotte del livello interrato saranno adibite a luogo di raccoglimento e preghiera.


Tutto ciò si tradurrà in una determinata organizzazione spaziale, che trova la sua origine innanzitutto nella separazione dei percorsi tra il personale di servizio della casa del commiato e i suoi ospiti, il pubblico. Questo è, stringato, il programma funzionale che la villa dovrà ospitare.
Ora, a chiunque abbia in mente l’immagine di una qualsiasi camera ardente ospedaliera purtroppo visitata nel corso della sua vita potrebbe sembrare che progettare una casa del commiato, una camera ardente, o comunque uno spazio idoneo a tali funzioni sia semplice e scontato, che richieda uno sforzo contenuto e marginale; di fatto potrebbe anche essere così, ma certamente il risultato non sarebbe che una sterile materializzazione di un programma funzionale a totale sacrificio del linguaggio architettonico – ammesso e non concesso che le due cose siano separate. Tanto vale allora tenersi le poco confortevoli camere ardenti ospedaliere sopracitate. Ma se si percorre la seconda strada, quella dell’architettura come linguaggio – ovvero, paradossalmente, di un’architettura che fa a meno delle parole per essere spiegata – ecco che allora il percorso diventa disseminato di ostacoli e richiede successivi livelli di approfondimento non solo di natura tecnica e funzionale ma soprattutto storica, storiografica, semiotico-simbolica ed estetica (intendendo con ciò la capacità di coinvolgimento di tutti i sensi recettivi).


L’obiettivo pertanto non è solo quello di rendere funzionalmente corretta la camera ardente come una macchina ben organizzata, non riguarda solo gli spazi e gli arredi e il loro grado di accomodamento verso il defunto e i suoi cari che lo circondano in quel delicato e particolare momento, ma arriva a toccare dimensioni reali quali la morte – e quindi la vita –, e la loro interpretazione culturale sia storica che odierna, spesso contrapposta al loro essere e divenire naturale, cercando di mettere in forma tutto ciò per mezzo dell’architettura, lasciandola parlare (senza troppe parole scritte – fatta eccezione per questa particolare fase di presentazione del progetto, s’intende). Da dove partire?


5.3 VITA MORTE E CONSERVAZIONE DELL’ENERGIA


La vita e la morte non sono semplicemente dei concetti astratti, sospesi, immutati e immutabili nel tempo, ma delle realtà concrete con cui l’uomo fin dalle origini è stato sempre costretto a confrontarsi, e che l’hanno spinto a formulare e costruire sistemi di pensiero articolati e particolari, determinati volta per volta, caso per caso, dalle condizioni pratiche in cui quegli stessi gruppi di uomini si trovavano ad operare.


In questa ottica, va da sé che, arrivati a questa fase della dinamica storica, troviamo gli elementi quali la vita e la morte completamente incrostati delle
interpretazioni prodotte nel tempo dalle varie filosofie, religioni, concezioni e deduzioni più o meno scientifiche.
Se, come detto, vogliamo realizzare una casa del commiato che non sia meramente solo una somma di locali tecnici alla funzione preposta, dovremmo quanto meno sforzarci di trovare all’interno di questa enorme ed eterogenea conoscenza accumulata quel filo rosso in grado mettere in relazione quelle visioni, quelle ipotesi più stimolanti e concrete, sperate si dallo spazio e nel tempo storico, ma che presentino punti di contatto su cui far leva in modo da venire fuori dall’immenso labirinto interpretativo che avvolge quei due termini e formulare quindi una proposta architettonica per la nostra casa del commiato che vada al di là delle scontate immagini localmente consolidate.


D’altro canto però non vorremmo che una trattazione del genere occupasse troppo spazio rubandolo a temi più pregnanti in vista del recupero dell’edifico sul quale ci troviamo a lavorare. Pertanto sintetizzeremo la nostra visione in pochi concetti – elaborati anche nel corso del tempo passato (visto che, come studio, ci siamo già trovati a progettare una precedente casa del commiato). Dopodiché troveremo e lasceremo tracce degli stessi disseminate nelle pagine a seguire.


Spogliandoci per un momento di ogni retaggio culturale osserviamo che “c’è un fatto, o se volete una legge, che governa i fenomeni naturali sinora noti. Non ci sono eccezioni a questa legge, per quanto ne sappiamo è esatta. La legge si chiama “conservazione dell’energia”, ed è veramente una idea molto astratta, perché è un principio matematico: dice che c’è una grandezza numerica, che non cambia qualsiasi cosa accada. Non descrive un meccanismo, o qualcosa di concreto: è solo un fatto un po’ strano: possiamo calcolare un certo numero, e quando finiamo di osservare la natura che esegue i suoi giochi, e ricalcoliamo il numero, troviamo che non è cambiato... “ (Richard Feynman)


In altre parole, dilatando il concetto e tessendo un paragone potremmo anche dire che la materia di cui sono fatti i corpi attraverso quel passaggio di fase che è la morte comincia la sua trasformazione in altre forme di vita (Denis Diderot). Come ogni altra cosa esistente nel Cosmo, anche l’uomo, la materia che lo attraversa, si trova sempre in una condizione dinamica e intermedia tra la vita e la morte; mentre crediamo di essere vivi, l’entropia lavora producendo decadimento, e dentro di noi milioni di cellule muoiono ma altrettante nascono sulla spinta della negentropia, e così via, a scale
differenti si verifica questo incessante movimento e cambiamento delle forme materiali: ma il Cosmo nella sua totalità non muore mai, poiché per la totalità vita e morte non esistono, sono solo parole che cercano di afferrare l’invisibile eppur concreta realtà della trasformazione permanente. E questo è un fatto.


Allora la casa del commiato, lungi dal rispondere solamente a qualcosa di ben delineato all’interno di precisi e esclusivi confini di pensiero e gruppi di individui condividenti la medesima fede, dovrà cercare di trovare la sua dimensione in questa singolare concezione dell’universo e dell’uomo in esso, condivisibile da ogni uomo in quanto essere biologico, che abbracci e unisca tutti al di là delle singole credenze separate a riguardo della vita, la morte, e il divino – almeno in questo ambiente che si vuole realizzare, per un relativamente breve tratto della loro esistenza.


Fuori dai confini del progetto infatti c’è di nuovo la medesima società con tutti i suoi prodotti culturali, con le sue separazioni, i suoi dualismi, le sue illusioni. Consapevoli di ciò, ovviamente la nostra intenzione non è certo quella di formulare l’ennesima visione del mondo alla quale aderire, ma piuttosto quella di provare a disconnette anche solo per un momento da essa gli uomini che entreranno in questo spazio, cercando di riaccompagnarli verso l’essenza nascosta della realtà fisica al di là dell’illusione di ogni concezione separata dell’esistenza e riconnetterli a quella concezione monistica e in divenire narrata dallo stesso spazio progettato, che non va capito intellettualmente, ma letto e sentito istintivamente come un qualcosa di ancestrale e affine, e tuttavia non ancora conquistato in pieno.


 


CAPITOLO 6: IL PROGETTO TRA CONSERVAZIONE, RESTAURO E INNOVAZIONE


Quanto sostenuto finora potrà supportare la definizione del progetto di restauro che andremo a proporre. “Gli ultimi decenni ci hanno fatto assistere ad un dibattito di inedita vivacità riguardo alla protezione dei beni culturali, specialmente architettonici”18, dibattito che, in sintesi, ha visto emergere differenti strade teorico-pratiche inerenti – in generale – al recupero dell’esistente.


Prima di imboccarne una, o trovare un’altra alternativa che magari le intersechi attraversandole, e cogliendo quanto ci può essere utile dall’una o dall’altra, occorrerà ribattere con Gaetano Miarelli Mariani che per restauro s’intende quel “complesso di operazioni tese in una prima fase a rendere un’opera del passato adeguata alle esigenze rappresentative e pratiche della contemporaneità; vale a dire a compiere un vero e proprio intervento di recupero”19.


Adeguata alle esigenze rappresentative e pratiche della contemporaneità: si tengano ben presenti queste parole, ci torneranno utili, poiché dovremo intervenire su un edificio qualificato come monumento di interesse culturale e nazionale - “Monumento, monumentu(m): derivato da mònere, ricordo, testimonianza, in altre parole impronta di una vicenda singola o di un complesso di vicende ed esperienze del passato conservate e rievocate”20.


6.1 IL FUTURO AGISCE SUL PRESENTE. La nostra teorica progettuale comincia a prendere corpo: inserendo una nuova particolare funzione – la casa del commiato intesa nella sua globalità – all’interno di tale preesistenza, dobbiamo trovare il modo di farle convivere in una particolare simbiosi, senza che tale azione però scada in soluzioni, sia formali che concettuali, piatte, semplicistiche e scontate, che rischierebbero solamente di svilirle entrambe. Dopotutto “[...] il restauro ha, come suo specifico campo di intervento, niente altro che preesistenze. Ciò significa anche che esso è la parte essenziale e inscindibile dell’architettura alla quale è affidata la cura di quello che di architettonico ci è pervenuto dal passato; attività da perseguire con assiduità, diligenza e secondo le regole stabilite dal proprio tempo. Preesistenze che il restauro deve tendere a legare al presente in un rapporto peculiare e originale che non ne indebolisca l’autenticità”21.
Sarà pertanto questa nuova funzione, il nostro stesso obiettivo da raggiungere e ancora non realmente esistente se non potenzialmente come volontà – la casa del commiato intesa nella sua globalità – a guidarci nelle scelte da compiere per potervi giungere attraverso un complesso di azioni particolari eseguite sul corpo dell’opera stessa. Quello che proponiamo quindi non è semplicemente un intervento di restauro (e vedremo di quale natura) che abbia per obiettivo la villa in quanto tale, in quanto monumento e opera d’arte fine a se stessa; al contrario, consideriamo la villa (con tutto il suo bagaglio storico, materiale, spirituale) un vero e proprio materiale da costruzione da utilizzare per tendere alla casa del commiato – sempre considerata nella sua globalità: ecco quello che per noi potrebbe definirsi, nel caso specifico, la concretizzazione delle esigenze rappresentative e pratiche della contemporaneità. Ma utilizzare come?


6.2 LE DIVERSE VIE DEL RESTAURO. Esistono diverse strade nel vasto mondo del restauro che ogni tanto si incrociano per poi nuovamente divergere. Ne prenderemo in considerazione due.


6.2.1 La “posizione centrale”. Una di queste è ad esempio quella che comunemente tra gli addetti ai lavori viene definita la “posizione centrale” – una strada che comunque a sua volta ne contiene numerose altre, che differisco per l’uno o l’altro aspetto tra di loro.


In generale, la “posizione centrale” fonda le sue radici nei postulati del restauro scientifico cui si sono aggiunte le riflessioni e le elaborazioni del restauro critico. “Da qui, un restauro che, attraverso l’osservanza degli ormai classici criteri del “minimo intervento” e della “distinguibilità” non esclude, in linea di principio, la legittimità di azioni innovative finalizzate al sostanziale rispetto dell’opera “autentica”, non a suoi aggiornamenti o a sue interpretazioni” 22 . Fermiamoci un attimo su questa affermazione; trasferendola nel nostro caso specifico, ci domandiamo: qual è l’opera autentica? La villa ottocentesca o il preesistente casale ipoteticamente sei-settecentesco da cui è stata generata? Se con “autentico” intendessimo “originario”, legando l’aggettivo “autentico” alla dimensione temporale, opteremo ovviamente per quest’ultimo, visto che la villa è temporalmente successiva, e – sempre secondo quest’ottica – ne costituisce un aggiornamento posteriore. Al contrario, se all’aggettivo “autentico” dessimo una connotazione di valore, di prestigio (almeno secondo la cultura attuale)
ecco che sarebbe il casale a diventare una presenza fisica di più basso profilo rispetto alla villa che sarebbe poi diventato.


Infatti, c’è un altro aspetto di cui tener conto. La “posizione centrale” si basa in maniera sostanziale sull’emissione di un giudizio di valore, ovvero sullo stabilire ciò che merita di essere conservato e restaurato. Ovviamente stiamo semplificando in maniera drastica, sappiamo bene che la questione non è così scontata, ma ricca di sottili e complesse sfumature. Tuttavia, in sostanza, il gesto del restauro inteso dalla “posizione centrale” trova la sua motivazione iniziale in questa scelta di valore, “raggiungibile solamente attraverso un esercizio disinteressato e maturo del “giudizio” chiamato a contemperare ragioni ed esigenze (antico-nuovo, dato e valore estetico-dato e valore storico ecc.).


Venendo al nostro caso, nell’esprimere il giudizio di valore in primo luogo è ovviamente impossibile separare il casale dalla villa, visto che questa non esisterebbe senza l’altro: ne è la continuità materiale, anche se se ne distacca nei contenuti formali: è questa dialettica a produrre il suo stesso divenire – anche nel futuro immediato. D’altro canto, non possiamo neanche sbarazzarci della villa interpretandola come un aggiornamento successivo del casale, sempre per le medesime ragioni.


Il corpo è ormai unico, e la sua identità storica discende dal suo stesso divenire attraverso i differenti momenti storici che ha attraversato, pertanto dovremmo considerarlo nella sua interezza spaziale e temporale, senza esprimere una gerarchia di valori assoluti, specie se derivati dalla coscienza interpretativa del singolo (come suggeriva Brandi) – anche se ciò non equivale a negare qualsiasi azione critica selezionatrice, guidata e ragionata in vista di un obiettivo che si vuole raggiungere, specie se è la stessa casa del commiato a richiederlo.


6.2.2 La “pura conservazione”. C’è un altro orientamento, la cosiddetta “pura conservazione”, che al contrario “intende il restauro quale mantenimento della ‘totalità naturale-culturale e antropologico-storica dell’opera d’arte’ (Calvesi, 1972). Di conseguenza, prescindendo da ogni valutazione estetico- qualitativa, esso postula l’esclusivo mantenimento dell’esistente. A fronte del “giudizio” non immune da dubbi e incertezze, questa corrente contrappone l’oggettività del dato testimoniale, che non ammette azioni selettive, anzi rifiuta ogni criterio di preferenza e non accetta scale di valori. [...] si tende a privilegiare l’istanza “storica”, quella che riconosce le qualità documentarie dell’opera e non ne considera, o considera meno, i valori figurativi. [...] In definitiva, per la “pura conservazione” il monumento, anzi “il costruito”, è documento autentico, mai completamente posseduto; il restauro è atto di comprensione che apre nuove possibilità alla ‘conoscenza storica portata in profondità anche a livello di gusto’ (Gregori, 1971)”23. Quindi “il restauro è accettabile soltanto come conservazione del peculiare status dell’opera, vale a dire nel mantenimento della leggibilità e nella permanenza del testo architettonico nella sua funzione documentaria; una concezione comunque ‘lontana dall’imbalsamazione o dal feticismo’, volta a conservare l’autenticità dei singoli elementi materici, tuttavia consapevole della loro ‘naturale irreversibilità’; insomma, un atteggiamento conservativo determinato anche dal fatto che ‘nel campo dell’arte tutto significa, tutto è artistico (...) anche le materie, le tecniche, i supporti, gli schemi tipologici o iconici, perfino lo stato di conservazione’ (Argan)”24.


Quindi “viene negata la validità di procedimenti legati ad un “giudizio di valore” che, con la sua funzione selettiva, è ritenuto il più censurabile anello della catena che connette i concetti all’operatività’ (Miarelli Mariani)”25.


6.3 DALLE TEORIE ALLA PRATICA: CONSERVAZIONE. Leggendo queste teorie, forse l’approccio all’opera eseguito secondo i principi e i metodi della cosiddetta “pura conservazione” garantirebbe l’ottenimento di certi aspetti che ci preme far valere.


6.3.1 La materia tra conservazione e decadimento. In primo luogo, uno di questi riguarda la materia dell’opera, che, proprio come un corpo vivente, è mutevole, segue le leggi di natura ed è determinata da un normale processo di invecchiamento: il suo parametro di evoluzione è il vettore “tempo”, e l’azione su di essa deve essere curativa, evitando quanto più possibile sostituzioni, aggiunte, sicuramente ripristini. “Un principio già espresso negli anni Sessanta da Piero Sanpaolesi quando, insieme all’unicità e all’irripetibilità dell’opera, mette a fuoco il concetto di “autenticità materiale” al quale deve legarsi strettamente ogni intervento di conservazione”26. Va da sé che ciò comporta un accurato studio delle cause del degrado e la sperimentazione delle soluzioni tecniche per il consolidamento che consentano dove possibile di non sostituire i materiali.
È nostra ferma intenzione cercare di conservare allora quanto di più ci è concesso dal degrado dell’edificio quello che ci si presenta sotto mano oggi, consegnatoci dalla storia e dagli eventi in questo determinato momento, cercando di agire direttamente sulla materia di cui è fatta l’opera attraverso tutte le tecniche a disposizione che rientrino nel campo d’azione della conservazione. L’obiettivo però non è quello di congelarla e cristallizzarla nella fase in cui l’abbiamo colta – un atteggiamento peraltro anche tecnicamente impossibile visto che “’non [è stato] e non sarà mai possibile conservare totalmente e per sempre’ (Torsello)”27, quanto piuttosto conservarla nel senso di rallentarne il più possibile il fisiologico decadimento – allontanando il giorno dell’inevitabile fine.


6.3.2 Lo spirito e l’eredità ruskiniana. Quanto detto evoca le parole di John Ruskin, la cui “riflessione ha esercitato un’enorme influenza nel determinare il nostro modo di vedere, cioè di considerare per intero l’opera, quale ci è pervenuta, nelle sue modalità costitutive, nelle sue valenze formali, cromatiche e materiche le quali, nel loro complesso intrecciarsi, la rendono unica, irriproducibile, non sostituibile con copie e surrogati”28.


Anche se ormai antiche, le sue sanno ancora stimolare certe visioni e toccare certe corde: “Vigilate su un vecchio edificio con attenzione premurosa; proteggetelo meglio che potete e ad ogni costo, da ogni accenno di deterioramento. Contate quelle pietre come contereste le gemme di una corona; mettetegli attorno dei sorveglianti come se si trattasse delle porte di una città assediata; dove la struttura muraria mostra delle crepe, tenetela insieme usando il ferro; dove essa cede, puntellatela con travi; e non preoccupatevi per la bruttezza di questi elementi di sostegno: meglio avere una stampella che restare senza gamba. Tutto questo fatelo amorevolmente, con reverenza e continuità, e più di una generazione potrà ancora nascere e morire all’ombra di quell’edificio. Alla fine anch’esso dovrà vivere il suo giorno estremo; ma lasciamo che quel giorno venga apertamente e senza inganni, e non consentiamo che alcun sostituto falso e disonorevole lo privi degli uffici funebri della memoria”29.


Non intendiamo quindi restaurare o ripristinare l’immagine della villa, di per sé non è un qualcosa che si sottrae al divenire, ma è il risultato dello stesso processo di degrado dell’edificio: anch’essa fatalmente segue, essendone il risultato, il processo biologico che subisce il contesto fisico
di cui essa è veicolo di immagine. Non si tratta quindi di perseguire un ritorno ad un improbabile stato originario ma di salvaguardare quello che all’oggi resta, in quanto documento autografo, unico e irriproducibile, in una lettura senza pregiudizi che si fa carico della processualità della fabbrica e dunque anche di fratture e discontinuità, con tutti i suoi segni, tutte le sue cicatrici sul corpo, provato dalla storia e dagli eventi ma tuttavia ancora vivo e in funzione.


6.3.3 L’evento esterno come coautore dell’opera. Farsi carico delle fratture e delle discontinuità significa anche accettare gli eventi traumatici che ne hanno segnato la storia recente, e considerare i loro effetti materiali come parte integrante del corpo – e dell’immagine del corpo – successivi al trauma stesso. Significa allargare la visione a ciò che effettivamente concorre a determinare l’opera nel suo insieme; significa integrare nell’opera anche l’ambiente circostante e i suoi effetti, rendendolo partecipe del progetto di conservazione.


Nel caso specifico tutto questo si è manifestato nel crollo di parte del tetto centrale, e nel conseguente collasso dei due solai sottostanti (ne abbiamo parlato nel capitolo 3 e 4): come detto, ora resta un vuoto che dal piano terra arriva al cielo. Lungi dal vedervi un qualche cosa di negativo a cui porre assoluto rimedio, una falla da tappare magari ripristinando tetto e solai secondo l’inerziale approccio del “dov’era e com’era”, vediamo in esso piuttosto la concreta opportunità di vedere applicate le nostre intenzioni progettuali.


Pensiamo per un momento alla pratica giapponese del kintsugi, inerente la ricomposizione dei pezzi rotti di un vaso attraverso tecniche e materiali estranei a quelli originari. Tale tecnica di ricomposizione non solo mostra se stessa attraverso una dissonanza estetica che la identifica rispetto alla preesistenza (ricordando il discorso brandiano sul restauro che cita se stesso), ma esalta al contempo la lesione del tempo, l’evento occorso, che assurge a valore integrato ora nell’opera stessa. Nessun “com’era e dov’era”. Possiamo utilizziamo questo esempio per tessere dei paragoni con il nostro caso in questione. Paragoni che non siano meccanicamente equivalenti (del tipo kintsugi=anastilosi): un edificio non è un vaso e non potrà mai essere riassemblato come quello, soprattutto se le macerie si sono perse o sono andate in polvere. È il concetto che ci interessa, la sensibilità che alimenta, al di là della forma concreta. È incarnare nel progetto, e quindi nell’opera, quell’evento – anche traumatico in questo caso – che l’ha segnata
per sempre: nessuna operazione di ripristino, nessuna mimesi, e neanche – nel caso dei due solai interpiano – sostituzioni dissonanti. Resta il vuoto, e si fa struttura, interna al corpo dell’edificio, che connette il basso con l’alto, la terra al cielo, con l’uomo in mezzo. Ci torneremo più avanti.


6.3.4 L’intervento dissonante. D’altro canto però lo stesso evento ha procurato anche evidenti lesioni statiche all’edificio – che dovrà quanto meno rispondere alle prescrizioni del cosiddetto “miglioramento sismico” e quindi alla normativa di riferimento. In altre parole, non possiamo conservare quanto prodotto dall’evento così come lo vediamo, non possiamo limitarci a curare la materia colpita dall’evento; occorreranno interventi mirati a ritrovare e garantire la sua migliorata prestanza statica. Ruskin ci viene nuovamente d’aiuto: inserendo quindi elementi strutturali in evidente dissonanza col contesto locale nel quale si vanno ad inserire (Tavola 6, Interventi tipo), in acciaio: allo stesso tempo citano l’intervento e ricordano l’evento, lasciando comunque i suoi effetti materiali ben visibili sul corpo dell’edificio.


Questo esempio d’intervento ci porta a chiarire che ovunque sia necessario intervenire – per ragioni non dipendenti dalla nostra volontà – con integrazioni o sostituzioni, queste andranno condotte sempre secondo il principio della dissonanza, così come previsto e suggerito anche da Dezzi Bardeschi.


La dissonanza più grande la troviamo nella copertura centrale dell’ex bigattiera. Sappiamo già del crollo e del vuoto che ne è seguito. Che fare? Davanti a noi si presentano strade differenti. In un primo momento è prevalsa l’intenzione di lasciare protagonista – anche qui – il vuoto, e quindi di evitare qualsiasi forma di intervento che non fosse puramente di matrice statica al fine di evitare ulteriori dissesti e mettere in sicurezza l’insieme in vista della sua riapertura al pubblico: ciò si sarebbe tradotto nella trasformazione di quello che era l’ultimo solaio interpiano in un solaio di copertura, praticamente in una terrazza a cielo aperto (nuovi carichi permettendo). Tuttavia, simulando al computer delle azioni sismiche applicate al modello tridimensionale dell’intero edificio, ci siamo accorti che il terzo livello, l’ex bigattiera, mostrava il fianco a più di un problema: primo fra tutti la tendenza al ribaltamento delle quattro pareti perimetrali, essendo venuta a mancare la chiusura in sommità del precedente tetto.


L’inevitabile realtà degli eventi ci costringe nella posizione di dover per forza di cose attuare un certo tipo di intervento, che ripristini non tanto la
forma quanto la funzione statica che svolgeva la precedente copertura, evitando così il ribaltamento delle pareti e migliorando sismicamente l’intero edificio.
La nuova copertura proposta quindi assolve tale funzione e ripropone un volume coperto che ristabilisce una separazione nell’unione praticata dall’evento tra l’interno e l’esterno, l’alto e il basso, la Terra e il Cielo. Non sono concetti, ma solide realtà sulle quali innestare un preciso linguaggio architettonico. Tuttavia, alla separazione fisica c’è una scappatoia. Poiché la convinzione di elevare a valore spaziale e architettonico le conseguenze dell’evento e parlare quel linguaggio fatto di opposti in relazione tra loro è ferma, abbiamo pensato la nuova copertura interamente realizzata in vetro e acciaio, in completa dissonanza rispetto alla preesistenza. Non solo nei materiali, ma anche nella forma: di questa però parleremo più avanti, discutendo del progetto del nuovo.


Osserviamo adesso i solai interpiano: ognuno è differente dall’altro (anche se tutti riconducibili ad un'unica matrice statica), ognuno ha un livello di degrado differente dall’altro. Abbiamo stimato che circa l’80% delle strutture di orizzontamento andrebbe sostituita poiché gravemente ammalorata, il cui degrado è irreversibile (magari perché soggetto all’attacco profondo di patologie di natura chimico-biologica uno, o perché mancante della sezione resistente l’altro). Se la sostituzione diventa d’obbligo facciamola con elementi dissonanti: travi d’acciaio, ad esempio, come da noi proposto (Tavola 6, Interventi strutturali). D’altro canto, quel 20% circa di solai che restano, anche se in condizioni migliori rispetto agli altri, saranno tuttavia integrati sempre con elementi dissonanti (Tavola 6, Interventi strutturali); mai con elementi rassomiglianti, comunque falsi, poiché è facendo il falso antico non si onora, ma si offende l’antico.


Questa è una delle basi della dottrina del restauro moderno che dovrebbe essere condivisa da tutti: “[...] gli orientamenti attuali del restauro non postulano, anzi escludono, le riproposizioni mimetiche di parti”30.


6.3.5 La materia come parametro del grado d’entropia. Preparandosi ad accogliere quella nuova specifica funzione, in un certo senso è la stessa villa, a suggerirci come vorrebbe essere conservata. Cerchiamo di spiegarci meglio. Abbiamo già studiato e descritto lo stato in cui versa, gli eventi e i traumi che l’hanno segnata, il suo degrado e gli effetti di questo sulla materia di cui sono fatti i suoi differenti e singoli elementi. Tutta questa
decadenza non è però da considerare come un difetto al quale porre rimedio con un particolare tipo di intervento manutentivo – o, peggio ancora, di ripristino; al contrario, diventa essa stessa significante, indicandoci una corretta via da perseguire, le corrette azioni da compiere. Non solo il segno del tempo, ma anche gli effetti del degrado non scompaiono, diventando al contrario testimoni dello scorrere del tempo, del mutare della materia: in pratica, la condizione della villa ci parla, ci racconta del mutamento e del divenire, dell’impermanenza della vita e della inevitabilità del decadimento entropico, della morte: tutto questo scritto sulle sue stesse pareti, immagini dello scorrere della materia racchiusa nelle sue forme.


Ecco perché nel nostro intervento conservativo non vogliamo far altro che eliminare alla radice le cause che hanno determinato i differenti livelli di degrado (materico, strutturale, ecc...) ma non i suoi effetti: vogliamo che restino e che ci parlino dell’incessante riversarsi della vita nella morte, e della morte in nuove forme di vita (simboleggiate dal progetto del nuovo, che descriveremo più avanti).


Questo significa rinunciare – sulle pareti, dovunque non sia strutturalmente necessario – a qualsiasi forma di ripristino mimetico, ma anche di integrazione – in questo caso anche dissonanti – delle lacune grandi o piccole che siano. Pensiamo anche a quelle parti crollate dei controsoffitti in camorcanna: un certo tipo di degrado ne è il responsabile. Pertanto eliminiamo le cause che hanno portato a quel cedimento, ma non nascondiamo lo stesso attraverso un ripristino, una sostituzione o un’integrazione, mimetica o dissonante che sia: curiamone pure i bordi, ripuliamone la ferita, ma lasciamo che la cicatrice si vedi, quasi fosse un monito, e relazioniamola con il tutto – magari nascondendoci una fonte luminosa.


6.3.6 L’intervento corale. Se da un lato questo potrebbe richiamare alla mente l’immaginario michelangiolesco del non finito, dell’indefinitezza e l’inafferrabilità di una realtà in mutamento sempre sfuggevole e impossibile da fissare, dall’altro impedisce, come già fece con mirabili architetture Scarpa, che l’opera si chiuda verso un traguardo definito e definitivo, ma piuttosto venga lasciata aperta. Così facendo non solo vi abbiamo integrato l’evento e il mondo esterno che l’ha generato, ma anche un ulteriore fattore: l’immaginazione dell’uomo che interagisce con l’opera stessa, la sua capacità di finire il racconto iniziato dall’opera stessa – un lector (delle quattro dimensioni proprie dell’architettura) in fabula; ovvio che questo si inveri
solo a condizione di non restaurare l’opera di tutto punto. “Ma non basta. Scarpa ha capito che il restauratore non deve scomparire, ma essere un ospite del racconto esattamente come i pittori rinascimentali che si autorappresentavano nei quadri da loro dipinti. Perché un racconto in cui non si sente la voce dell’io narrante non è un racconto come si deve. E allora? La storia si fa in tre: con l’opera, con la presenza in trasparenza di chi la ripropone all’attenzione, con lo sforzo ricostruttivo del fruitore” (Luigi Prestinenza Puglisi).


E la presenza di chi la ripropone si fa sentire soprattutto nel progetto del nuovo.


6.4 IL PROGETTO DEL NUOVO: INNOVAZIONE. Come sostiene Marco Dezzi Bardeschi, la “pura conservazione” “tende a operare un radicale distinguo fra conservazione e restauro; del resto i due termini ‘non sono complementari’ ma ‘in irriducibile opposizione’”31. Con ciò sostiene che la conservazione, per via della sua stessa intrinseca natura, non può e non deve sconfinare e concretarsi in azioni che non le sono proprie, come quelle del restauro, ossia dell’intervento progettuale critico – ad esempio sulle lacune – attraverso distinte integrazioni, ma limitarsi a quanto sostenuto nel precedente paragrafo – ovvio che poi, nell’atto operativo del cantiere, le teorie sfumino e magari si tocchino, oppure divergano ulteriormente: dipende dai casi specifici.


La conservazione però, lungi dall’essere statica, paralizzante e parziale, anche se non si pone dinanzi all’opera nelle stesse modalità del restauro critico racchiuso nella “posizione centrale”, trova il suo sbocco complementare nel “‘progetto del nuovo’ che si qualifica attraverso azioni totalmente esterne alla disciplina del restauro”32.


6.4.1 conservazione:innovazione=continuità:discontinuità. Questi due ambiti, anche se distinti e contrapposti, non possono però essere considerati separati, poiché strettamente legati da un’interdipendenza dialettica che si risolve solo nella totalità dell’intervento. Il riconoscimento del progetto del nuovo rappresenta pertanto quella metà simbolica nella quale le ragioni stesse della conservazione trovano un senso compiuto. “Il nodo del problema è quindi rendere accettabili i modi dell’”innovazione”, con i limiti della
“permanenza”; due concetti che esprimono ‘due vie conflittuali e antitetiche ma entrambi essenziali al nostro equilibrio’”33.
Possiamo vederli come due poli opposti di una medesima realtà: in uno abbiamo la continuità materiale che si invera nella conservazione, nell’altro la discontinuità delle forme (spazio, visione, linguaggio) introdotta dall’innovazione. Solo interagendo possono determinare quella feconda dinamica in divenire nella quale può praticarsi l’architettura.


Il progetto del nuovo inoltre non solo va a inserirsi nel territorio della preesistenza instaurando con essa un dialogo volutamente dissonante, ma si concreta anche come ulteriore tappa evolutiva della dinamica storica dell’opera – che ovviamente non terminerà col nostro intervento. Racchiude poi anche un fascino del tutto particolare e allo stesso tempo estremamente familiare: dopotutto è spesso la stratificazione delle architetture ad essere attributo di bellezza delle fabbriche del passato (nonché dei cosiddetti centri storici di tutta Italia).


6.4.2 Contro l’ambientamento. Nell’alternanza e nella compresenza di conservazione e innovazione il nostro progetto trova quindi la sua completa espressione. Così come la “pura conservazione” propende in maniera implicita ma chiara per l’integrazione dissonante, così anche il progetto del nuovo segue il medesimo comportamento allontanandosi da ogni conciliante teoria dell’ambientamento (del nuovo nell’antico). In generale, queste tendono a reprimere e a corrompere il nuovo senza pertanto rispettare l’antico. Solo rifuggendo da esse è possibile perseguire quella qualità aggiunta richiesta direttamente dalla funzione – la casa del commiato intesa nella sua globalità – a cui ogni aspetto dell’intervento tende.


Come sosteneva Zevi, gli interventi architettonici, se necessari, devono essere francamente moderni, puntando sulla creazione di un panorama alternativo, in larga misura antitetico a quello precedente. Che parlino quindi del loro tempo, che è il nostro, con un nuovo linguaggio; che rispondano alle nuove funzioni; che soddisfino le nuove esigenze. In un prossimo futuro saranno anche loro considerati come un ulteriore tappa evolutiva di quell’anonimo casale realizzato circa tre secoli fa. Non si tratta di aggiunte o reintegrazioni al corpo della villa, si tratta di inaugurare una nuova fase della sua vita, quando fino a pochi mesi fa il suo destino più probabile era l’oblio.


6.4.3 L’innesto del nuovo come rispetto del vecchio. Pertanto, andiamo a descrivere il progetto del nuovo. La nuova funzione – la casa del commiato intesa nella sua globalità – porta ovviamente con sé anche l’esigenza di nuovi spazi: primi fra tutti gli altri, le camere ardenti e gli spazi di percorrenza separati tra le funzioni del pubblico e quelle di servizio. Già abbiamo discusso di come sia la stessa casa del commiato a guidarci nelle scelte progettuali, sia inerenti la conservazione sia inerenti all’innovazione da attuare.


Guardando le piante elaborate nella Tavola 6 salta subito agli occhi la dissonanza spaziale dei nuovi diaframmi che delimitano i nuovi spazi di sosta e percorrenza, aprendoli o racchiudendoli all’occasione, rispetto all’anchilosata stereometria della preesistenza. Il loro insinuarsi dinamico nei meandri delle mura interne, intessendo con esse un gioco di percorsi e alternanze d’opposti, come quello dell’incidenza della luce e delle ombre sulle loro superfici, o del concavo e del convesso, è espressione di una precisa volontà di progetto che rimanda alle architetture che fanno della dimensione temporale la loro forza espressiva: lo spazio esplode e si articola in una serie di scorci, vicoli, anfratti percorribili che richiamano il corpo al vissuto dei primi cristiani nelle catacombe e alla loro architettura di percorso, antistatica e totalmente temporale.


Il vecchio spazio interno fatto di stanze chiuse su se stesse a compartimenti stagni viene coinvolto dai nuovi spazi, permeabili e fluidi, non chiusi, determinati dalla linea curva e morbida del nuovo intervento, a contrasto (ancora il contrasto e la differenza come spinta progettuale) con la stereometria rigida e bloccata dei muri interni della villa. Tuttavia, senza di questa il nuovo intervento perderebbe gran parte della sua forza espressiva: provate a immaginare quei diaframmi senza la disposizione dei muri preesistenti attorno...


Uno dei grandi apporti del progetto del nuovo infatti è che rimette in gioco anche la preesistenza, ravvivandola in un’ottica completamente liberata dai vecchi schemi spaziali – e mentali. Solo così facendo si potrà ridare dignità e vero rispetto al vecchio e all’antico, non mortificandolo con sterili imitazioni e pantomime.


6.4.4 Dissonanze e sfumature. I diaframmi comunque sono pensati completamente removibili, di facile smontaggio, in modo da poter sempre garantire la reversibilità dell’intervento; superficialmente sono trattati con una vernice
cromo-specchiante, che contribuisce a sottolinearne l’immaterialità e la leggerezza nel non interferire troppo visivamente con le vecchie strutture della villa: infatti, la dissonanza è cercata più sul piano spaziale (nell’influire sul movimento dei corpi, direzionati verso il luogo dei defunti) che sul piano visivo.


Le superfici specchianti e leggermente deformanti aiutano ad attenuare la massa dei nuovi diaframmi rendendoli eterei, quasi come fossero delle presenze aliene: un contrasto con le preesistenze che se ad una prima lettura potrebbe apparire forte e deciso, anche rischioso, in seconda battuta si dimostra estremamente sensibile e naturale nel riuscire a compiere una vera fusione dialettica: come in un dipinto di Leonardo, le superfici riflettenti concorrono a sfumare il vecchio nel nuovo, annullandone i confini spaziali, ricordandoci che ogni cosa è in movimento e che gli opposti (vecchio e nuovo, vita e morte) si riversano senza soluzione di continuità l’uno nell’altro, rimarcando l’unità di tutte le cose in processo verso la totalità, che fa delle differenze la sua ricchezza pur non ammettendo separazioni.


E visto che anche in precedenza abbiamo azzardato paragoni magari un po’ astratti ma forse comunque utili per afferrare in pieno certi aspetti della dimensione propria del restauro, ne proponiamo un altro, che magari ci aiuta a inquadrare ancora meglio determinate questioni: se la conservazione è relazionata al concetto di entropia (a cui cerca di porre freno), specularmente potremmo vedere nel progetto nel nuovo, nell’innovazione, la necessaria iniezione di negentropia per fa si che il sistema, ossia il nostro edificio, si ravvivi controbilanciando così la direttrice del suo comunque inevitabile decadimento.


6.4.5 L’atto critico: dalla “pura conservazione” alla “posizione centrale”. L’innesto del nuovo, dettato dalle esigenze della nuova funzione – la casa del commiato nella sua globalità – comporta pertanto la realizzazione dei diaframmi prima descritti. Tuttavia questi sono messi nella condizione di non soffocare la preesistenza: ad esempio, non arrivano al soffitto e quindi non chiudono in sommità le singole stanze (vecchie e nuove), lasciando comunicare gli spazi. Anche se riescono ad articolare lo spazio interno così come descritto poco sopra, nella maggior parte dei casi non compromettono le preesistenti strutture murarie, alle quali si avvicinano timidamente o si ritraggono rifuggendole. Tuttavia ogni regola ammette delle eccezioni. 


Come spiegato, la struttura della villa segue uno schema ben preciso: muri interni che si susseguono parallelamente tra loro e trasversalmente ai muri portanti perimetrali, andando ad individuare molte stanze comunicanti tra loro attraverso non corridoi ma semplici porte (in generale: infilata di stanze). Come detto, la nuova funzione introduce una nuova concezione dello spazio, anche in risposta al suo miglior funzionamento, garantito per prima cosa dalla – se possibile totale – separazione tra gli spazi di percorso dedicati al personale di servizio della casa del commiato rispetto a quelli dedicati al movimento del pubblico. Di regola, questi due non si dovrebbero mai incrociare, né tantomeno condividere anche solo brevi tratti di percorrenza stando affiancati – per ovvie questioni pratiche e igienico-sanitarie.


Detto questo, per separare fin dall’inizio i due spazi di percorrenza verrà praticata un’apertura nel muro laterale di sinistra del grande atrio centrale del piano terra, in corrispondenza della porta esistente posta al piano superiore: questo varco consentirà il generarsi dello spazio di percorrenza dedicato all’afflusso o al deflusso del pubblico verso le singole camere ardenti (confrontare le piante del piano terra tra lo stato attuale e quello di progetto: Tavola 3 e 6).


Tutti gli altri varchi aperti sulle murature trasversali interne sono stati praticati proprio dove abbiamo trovato quelle numerose stratificazioni delle differenti tamponature che si sono di volta in volta aperte, chiuse e riaperte e comunque avvicendate nel tempo a seconda delle superiori esigenze contingenti di ogni particolare momento storico (capitolo 4). Ecco quindi che la storia si ripete, ma in altra forma e dettata da nuove esigenze: quelle tamponature tornano a riaprirsi per consentire l’esplicarsi della nuova funzione – in più ne escono migliorate staticamente visti gli interventi a riguardo (confrontare le piante del piano terra tra lo stato attuale e quello di progetto: Tavola 3 e 6).


Purtroppo, data la stereometria della preesistenza non sempre è stato possibile evitare che i flussi del pubblico e del privato si incrociassero; capita solo una volta, e di contro non succede mai che compiano uno stesso tratto insieme. Progettare una distribuzione più tecnicamente efficiente sarebbe stato anche possibile, al costo enorme però di stravolgere la preesistente stereometria della villa – cosa che non abbiamo mai preso in considerazione, limitando il nostro intervento interno a quell’unico inedito varco della luce di appena un metro sopra descritto.


Sulla muratura esterna invece abbiamo previsto l’inserimento di ulteriori due varchi: uno, ex-novo, sul prospetto corto di nord-est (nell’angolo concavo
della pianta della villa) di natura tecnica, pensato per garantire un accesso intimo e riservato alla salma e ai funzionari che la trasportano all’interno del laboratorio di tanatoprassi; l’altro, ricavato allargando una finestra esistente, dalla parte opposta, per garantire lo sbocco esterno allo spazio di percorrenza del pubblico, verso il parco e la “piazza sommersa” esterna.


Veniamo alla facciata principale, il prospetto sud-est; anche qui abbiamo previsto alcune modifiche, dettate sia dallo stato della preesistenza che dalla funzione futura. In primo luogo abbiamo deciso per la riapertura delle pareti tamponate verso l’esterno inerenti le stanze 21 e 24 (Tavola 3), secondo le preesistenti luci (un tempo aperte) individuate dai rispettivi vecchi architravi ancora presenti.


Questa azione comporta un radicale cambiamento nella facciata principale: qui il ritmato disegno ottocentesco fatto di archetti (non strutturali) e lesene viene spezzato dall’erompere in superficie dell’interno delle retrostanti camere ardenti alla ricerca di luce naturale, nonché dalla forma pressoché quadrata delle nuove aperture – in realtà dettata dalle vecchie aperture del casolare preesistenti alla facciata ottocentesca della villa; le nuove aperture vengono a loro volta ritamponate da superfici vetrate che affacciano direttamente sull’esterno, sul giardino, mettendosi in connessione.


Possiamo considerare tutta questa azione come un grande lavoro in dissonanza, dettato in primo luogo dall’esigenza di illuminare con luce naturale le retrostanti camere ardenti e soddisfare le esigenze igienico-sanitarie. Questo inoltre ci consente di manifestare quanto abbiamo proposto per l’interno anche in superficie, dove così troveremo: manifestazioni del casale originario, della villa ottocentesca e, infine, il segno della contemporaneità. In questo modo rispetteremo veramente non solo l’edificio di per sé, ma l’intero suo divenire storico, mettendoci in sintonia con esso e rilanciandolo nella sua dinamica storica.


È ovvio poi che in tutte queste operazioni di apertura di tamponature e realizzazione di nuovi varchi sulla preesistenza la validità della teorie proposte dalla “pura conservazione” mostra il fianco. Di fatto, nei gesti di queste particolari operazioni manifestiamo una più corretta vicinanza alle teorie del restauro proposte dalla “posizione centrale”. In altre parole, muoviamo tali azioni solo dopo aver deciso ed espresso quella scelta, quel giudizio di valore, di cui abbiamo discusso precedentemente. Nella riflessione
di Giovanni Carbonara infatti “emerge costantemente il concetto di “atto critico”, che richiama da vicino il rapporto criticità-creatività ‘quale dato strutturante l’attività stessa del restauro’; ciò significa che, dice Carbonara, ‘il restauro diventa atto interamente critico nel suo farsi atto creativo e viceversa, in una assoluta e inscindibile compenetrazione’. Un modo di vedere che prefigura il progetto come “lecita modificazione””34.


6.4.6 La struttura del vuoto. Torniamo per un momento all’interno dell’edificio per parlare di ciò che, pur se rimasto in sospeso e pur se – solo apparentemente – poco attinente con l’architettura, contribuisce comunque a dar forza alla nostra visione.


Abbiamo parlato dei nuovi spazi che si risolvono in percorsi e luoghi di sosta; tutto questo movimento orizzontale trova però soluzione di continuità non soltanto verso il giardino esterno ma soprattutto nell’asse verticale generato dal vuoto che collega ben tre piani terminando – ma solo fisicamente – nella copertura in vetro e acciaio. Diciamo solo fisicamente poiché la trasparenza del vetro ci consente ancora di proiettarlo e proiettarci oltre, verso il cielo. Tuttavia, pensiamo a una copertura possibilmente apribile nella sua parte centrale (quella precisamente sopra l’asse verticale) in modo da lasciar passare, oltre alla luce naturale, anche i venti, giù verso il basso, ristabilendo quell’unione (controllata) che l’evento aveva procurato. In questo modo avremo sia una direttrice dello spazio orizzontale che verticale, come nelle cattedrali gotiche. Entrando, si è come attratti dalla luce naturale che, morbidamente e a seconda del momento della giornata, cade dall’alto proprio al centro del volume dell’edificio, lì dove in teoria dovrebbe trovarsi un pieno, riflettendosi sui nuovi diaframmi che si diffondono intorno, accentuando l’effetto straniante (della mancanza) e al contempo rassicurante (della luce stessa) sul visitatore; che di li a poco, portandosi fin sotto al vuoto, troverà lo stupore di avere il cielo per soffitto. Mentre tra i diaframmi tende a prevalere la dimensione umana, qui la tensione si sposta al cielo e alla scala sovraumana.


Attorno al vuoto si genera quindi un movimento dello e nello spazio che sale fino al terzo piano, ospitante, sotto la sua volta vetrata, la camera ardente più grande dell’edificio. La forma della copertura infatti richiama, nel piano, i movimenti concavi e convessi dei diaframmi che si rincorrono nei piani sottostanti, e i loro profili a cuspide, che ritroveremo poi nel giardino. La cuspide, simbolo geometrico e matematico della singolarità, del passaggio di fase, o se vogliamo della vita nella morte e viceversa.
La copertura, puntando verso il cielo e ritraendosi da esso, racchiude il vuoto sottostante, un vuoto che per le sue numerose implicazioni è struttura dello spazio e contribuisce al suo dispiegamento, sia verticale che orizzontale nei differenti piani. Anche per questi motivi abbiamo voluto che il vuoto restasse tale. E non nascondiamo che l’intero progetto del nuovo è stato pensato e nato attorno a questa assenza che paradossalmente, producendo effetti concreti, si fa presenza – prima fra tutte, manifestazione del caos e dell’imprevedibilità degli eventi, e quindi della vita e della morte.


Elemento base dell’Universo, come il mondo macroscopico e il mondo microscopico sono tenuti insieme dal vuoto, al loro interno e tra di loro, anche nel nostro progetto il vuoto – e in particolare quel vuoto – è quella struttura che connette (Bateson) le parti al tutto, che tiene insieme il tutto, facendosi linguaggio e motore che muove e permea lo spazio dell’uomo.


6.4.7 La testimonianza dell’albero. Questa qualità viene a sua volta sottolineata anche dall’inserimento al piano terra, all’interno di un asola nel solaio, di un vero e proprio albero, probabilmente un albero di ficus viste le sue proprietà naturali e storico-simboliche. L’albero, immagine e materia che di per sé non avrebbe bisogno di spiegazioni, elemento denso di connessioni storiche, culturali, semantiche e simboliche in ogni parte del globo, testimonia la fine di ogni illusione fondata sulla separazione, la transitorietà delle forme di vita particolari – non della Vita –, “testimonia l’unione del cielo e della terra e della terra-suolo ove brulicano molteplici forme di vita. Testimonia la comunità, in quanto non è un’entità separate ed esiste solo attraverso l’unione con le altre forme di vita...” (Jacques Camatte).


6.4.8 Il ruolo dell’acqua e del giardino. Il ruolo dell’albero però è anche quello di connettere l’interno con l’esterno, l’antropico col naturale, la villa col giardino. Come una molecola di questo che si è distaccata per andare a colonizzare la villa, così questa, guidata dalla casa del commiato, tende a proiettarsi verso di esso, e cercare in esso il suo naturale proseguo, mettendosi in continuità. E questa relazione è mediata dall’elemento acqua.


La sua presenza è fondamentale sotto diversi punti di vista: storico, simbolico, fisico-sensoriale, biologico, architettonico.
Architettonico poiché la sua presenza, contenuta in una vasca di bassa profondità, costituisce quasi una sorta di soglia da attraversare per poter di fatto entrare nel ventre della villa, nella casa del commiato. Insomma,
determina un gesto, e lo carica di aspettative – non deluse da ciò che il visitatore si troverà di fronte una volta varcata quella linea. In più, anch’essa contribuisce a sfumare l’immagine della villa nella natura in movimento (ossia nell’acqua) attraverso il riflesso. Un ulteriore punto di richiamo tra esterno e interno: anche qui, come internamente tra le preesistenze e i nuovi diaframmi, si cerca quella particolare sfumatura che fa delle differenti forme – architettoniche o naturali che siano – un'unica realtà in divenire.


L’architettura della villa (l’artificiale), si riversa nel naturale, l’acqua in movimento. Infatti tutto ciò acquista maggior enfasi se l’acqua ha una sua propria dinamica (che oltre a caricarla di linguaggi simbolici evita molto più prosaicamente che ristagni, con tutto quello che ne consegue). Restando sul simbolico, allora la villa è come se poggiasse se stessa su una superficie in movimento, ossia in divenire – ancora quel linguaggio. L’acqua scorre verso il necessario troppopieno, costituito dalle pareti di contenimento di una piccola piazza incassata al di sotto del filo dell’acqua e della linea di terra, e trovante spazio all’interno dell’abbraccio dell’esedra, rimessa così nuovamente in circolo, non più abbandonata a se stessa.


L’acqua trova in essa una barriera che la respinge verso la parte opposta, verso nord, verso la villa, e di fatto la avvolge in un gesto ancora una volta chiarificatore. Nel prospetto sud-est è come se provasse ad entrare (e con essa la natura), bloccata solo dalle nuove pareti vetrate – anch’esse parte del progetto del nuovo – arretrate rispetto al filo interno della parete, in modo tale da formare delle logge sull’esterno e movimentare così la dinamica delle ombre sulla facciata principale, resa finalmente non più immobile e bloccata nel proprio classicismo, ma partecipe del tutto e della contemporaneità.


Rimbalzando su tali sponde e ritornando indietro, l’acqua non può che dirigersi verso l’esedra. Le pareti della vasca che racchiudono la “piazzetta sommersa”, anche se in cemento, sono in realtà d’acqua poiché ricoperte dalla stessa durante la sua fase di caduta verso il basso: l’acqua (vita) torna alla terra, ed è come se trascinasse con sé la casa del commiato e quello che contiene. Questa dinamica poi produce piccoli suoni, rumori, sciabordii e mormorii, profumi e giochi di luce e d’ombra: tutti elementi che concorrono a generare un vero e proprio paesaggio nel paesaggio, e che chiama anche all’interazione dell’uomo.
Lungi dall’essere una stravagante intrusione o invenzione, il tema dell’acqua da sempre va a braccetto con l’architettura delle ville storiche. “L’acqua è da sempre presente nei giardini della regione e segna in primo luogo le fontane poste lungo l’asse centrale; ma la sua presenza è tutt’altro che esuberante” poiché maggiormente considerata nella sua dimensione utilitaria: “sapienti canalizzazioni raccolgono le acque piovane o quelle di sorgenti vicine convogliandole verso bacini e cisterne sotterranee, ma sembra quasi di cogliere una cerca riservatezza nell’uso di un elemento indispensabile alla vita del giardino”35 (anche se non mancavano certo esempio di stampo opposto come Villa Caprile a Pesaro). Neanche alla nostra visione i giochi d’acqua interessano: l’acqua ci interessa semplicemente come elemento naturale, e che sia in movimento, per i motivi qui sopra esposti. Se poi potrà servire anche come bacino in cui convogliare e da cui attinge per l’irrigazione del giardino tanto meglio.


Dell’acqua ricordavamo l’importanza anche dal punto di vista biologico: quello specchio d’acqua progettato sarà un intero universo per miriadi di piccole forme di vita che lo colonizzeranno, contribuendo di fatto a quel giardino in movimento, vivente, di cui parla Gilles Clément.


Se l’acqua cerca il gesto architettonico per porsi in un serrato e sfumato dialogo con l’architettura della villa trasformata dalla casa del commiato, la stessa cosa fa il giardino – e con giardino intendiamo sia l’area immediatamente circostante l’edificio sia l’intera proprietà definita nel parco. Al di là del tema dell’albero presente all’interno, è l’intera coltre di alberi ad alto fusto che racchiudono anteriormente la villa separandola dalla città circostante ad entrarvi. Come? Ancora una volta attraverso il riflesso, in questo caso determinato dalle superfici particolarmente specchianti delle nuove finestre (a cui sono state rimosse le persiane – superfetazione recente e incongrua, irrecuperabili alla conservazione, atto critico). Ancora: la natura si riflette nella villa, che la accoglie; così come accoglie il cielo, essendo anche i vetri esterni della copertura particolarmente specchianti. Così come l’acqua cade in terra, così fa il cielo, catturato dalla nuova copertura.


Pertanto il giardino è un giardino in movimento, brulicante di specie vegetali: nessun albero esistente verrà abbattuto; al contrario, si studieranno metodi di rimboschimento di particolari angoli al momento un po’ troppo scoperti, specie al limitare con le circostanti proprietà.
Dal punto di vista tecnico il progetto è stato ben illustrato nella Tavola 5: qui possiamo notare diversi elementi architettonici che, alzandosi dal terreno, lo modellano, disponendosi tutt’attorno alla villa e relazionando i loro movimenti e le loro posizioni sia alle linee curve della salita al poggio descritte nel paragrafo 3.5 sia ai diaframmi e agli spazi interni.


L’effetto prodotto dalla struttura del vuoto è come se fosse una campo di forza, che si propaga anche nel giardino, generandone gli spazi e le strutture fisiche; ad esempio, la rampa parabolica che in un solo gesto delimita la vasca, consente la risalita al piano della chiesa (rialzato rispetto al resto della villa) abbattendo qualsiasi barriera architettonica (le scale preesistenti della chiesa sono andate perdute nel corso del tempo), e separa il transito veicolare da quello pedonale.


Oppure la grande cuspide – ancora questo tema – d’ingresso, segno riconoscibile che accoglie i visitatori direzionandoli.
O ancora la grande vela in cemento armato che dal terreno si alza sollevandolo e va a formare un’altra cuspide sotto la quale trova spazio un piccolo luogo ombroso semi ipogeo dedicato al convivio: la tradizione delle grotte, luoghi in cui si esorcizzavano controllandole le paure ataviche legate alle forze ctonie della natura, s’è trasfigurata nella contemporaneità.


Gran parte del parco poi non verrà progettata nel senso tradizionale del termine ma, secondo gli insegnamenti del botanico Gilles Clement, verrà piuttosto controllata, governata, e il suo governo sarà diretta conseguenza del suo evolversi e mutare nel tempo, in cui troveranno la loro dimensione di vita anche specie vegetali spontanee, richiamando l’immaginario della natura misterica, della foresta.


Immaginario che viene maggiormente sottolineano durante la notte. Per espressa volontà eviteremo all’esterno luci forti, dirette e violenti, sia tra le fronde sia a ridosso delle pareti dell’edificio. La luce proverrà dagli interni illuminati, dalle bucature delle finestre. All’esterno invece opteremo per un’illuminazione tenue, leggera e aleatoria, che richiami l’immaginario dei fuochi fatui ma soprattutto rispetti la notte e la sua propria dimensione (nella Tavola 3 abbiamo indicato un possibile strumento per giungere a questo obiettivo).


Sempre nella Tavola 3 abbiamo dedicato uno spazio per la futura realizzazione di un possibile cimitero dedicato agli animali domestici, dove la proprietà arriva a lambire quella del cimitero. In tal senso, cercheremo anche un
collegamento con esso, in modo da riuscirvi ad andare, magari in processione direttamente dalla villa.


Infine, su nostro consiglio e per manifesta volontà dei nostri clienti, l’intero ecosistema della villa divenuta casa del commiato sarà di libero accesso da parte di tutta la cittadinanza (al di là che siano in corso funzioni funebri o meno) al fine di restituire all’intera città un pezzo della propria storia recuperata.


 


CAPITOLO 7: RESTITUZIONE SCRITTA DELL’INTERVENTO SULLA VILLA: CONSERVAZIONE, ATTI CRITICI E PROGETTO


7.1 DAL GENERALE AL PARTICOLARE. L’intero sesto capitolo è servito per esporre in maniera sintetica e il più possibilmente chiara ed esauriente le nostre convinzioni e volontà rispetto all’opera da recuperare. Ne abbiamo parlato in generale, anche se di tanto in tanto ci siamo concessi qualche incursione in particolari casi specifici. Ora dobbiamo riversare quelle intenzioni lì descritte nei singoli casi che ci si presentano, seguendo la falsa riga fornitaci dalle stesse Norme Tecniche di Attuazione del Comune di Jesi – così come già avevamo fatto nella stesura del paragrafo 3.7.


Essendo questa una relazione ad un progetto preliminare, le descrizioni che seguiranno saranno ridotte al minimo indispensabile e verteranno specificatamente più sul piano tecnico che su quello architettonico, poiché già trattato appunto nel capitolo 6, e metteranno giustamente in evidenza la risposta tecnica ai problemi. Risposta tecnica che ovviamente deve svilupparsi pur sempre all’ombra della visione architettonica così come articolata sempre nel sesto capitolo.


7.2 IL CORPO – ESTERNO ED INTERNO – DELLA VILLA: INTERVENTO


7.2.1 Coperture.


Manto di copertura. L’obiettivo è conservarlo nella sua interezza secondo i metodi della “pura conservazione”, anche se la sottostante struttura delle coperture andrà sostituita in larga parte. Ciò comporterà la sua preventiva rimozione, catalogazione, conservazione e, una volta possibile, il suo rimontaggio.


Comignoli. Verranno conservati.


Abbaini. Verrà conservato.


Cornicioni e spioventi. Verranno conservati secondo i metodi della “pura conservazione”, ossia conservando la materia che ne resta ma non sostituendo o integrando quella perduta; pertanto le lacune, anche se curate, resteranno tali.


Canali di gronda e discendenti pluviali. Verranno integrati o sostituiti.


7.2.2 Facciate.


Superfici intonacate. Ricadono nell’ottica di intervento previsto nei metodi della “posizione centrale”: praticando quel tipo di intervento sul prospetto descritto sommariamente nel paragrafo 6.4.5 queste verranno completamente rimosse.


Superfici di mattoni a vista. Verranno coinvolte sia dall’intervento di “pura conservazione” sia dall’atto critico previsto dalla “posizione centrale” – nello specifico ci riferiamo al caso descritto sommariamente nel paragrafo 6.4.5.


Rivestimenti. Il loro trattamento risponde allo spirito del progetto descritto nel capitolo 6.


Particolari architettonici. Verranno conservati secondo i metodi della “pura conservazione”, ossia conservando la materia che ne resta ma non sostituendo o integrando quella perduta; pertanto le lacune, anche se curate, resteranno tali.


Tinteggiature e decorazioni pittoriche. Assenti.


Infissi. Le finestre non sono nelle condizioni di poter essere restaurate, né tantomeno conservate; verranno pertanto sostituite con nuovi modelli di alto profilo ma di basso impatto estetico nell’economia dell’opera.


Elementi di finitura. Assenti.


Vani porta esterni. Verranno conservati secondo i metodi della “pura conservazione”, ossia conservando la materia che ne resta ma non sostituendo o integrando quella perduta; pertanto le lacune, anche se curate, resteranno tali.


Vani finestra esterni. Verranno conservati secondo i metodi della “pura conservazione”, ossia conservando la materia che ne resta ma non sostituendo o integrando quella perduta; pertanto le lacune, anche se curate, resteranno tali.


7.2.3 Spazi interni.


Intonaci. Verranno conservati secondo i metodi della “pura conservazione”, ossia conservando la materia che ne resta ma non sostituendo o integrando quella perduta; pertanto le lacune, anche se curate, resteranno tali.


Rivestimenti. Il loro trattamento risponde allo spirito del progetto descritto nel capitolo 6.


Particolari architettonici. Verranno conservati secondo i metodi della “pura conservazione”, ossia conservando la materia che ne resta ma non sostituendo o integrando quella perduta; pertanto le lacune, anche se curate, resteranno tali.


Tinteggiature e affreschi. Sempre nello spirito del progetto descritto nel capitolo 6 verranno curati e conservati per quanto possibile, tuttavia non subiranno nessun tipo di ripristino, né di restauro che comporti l’intervento anche critico sulle lacune, ad esempio riempendole con malte senza per questo riprodurre le trame o i disegni.


Infissi. Tutti i vecchi infissi descritti nel capitolo 3 verranno sostituiti da nuovi elementi idonei a quanto proposto dal progetto.


Elementi di finitura e stucchi. Nel capitolo 3 abbiamo fatto ricadere sotto tale dicitura l’insieme dei soffitti in camorcanna, studiandone lo stato di degrado. Pertanto in questa sede si prevede il loro recupero statico e la messa in sicurezza delle volte in camorcanna – ovviamente di quelle ancora in piedi. Verrà realizzato attraverso: 1) l'inserimento e/o il raffittimento delle strutture di supporto estradossali con nuovi collegamenti alle travi del solaio soprastante; 2) rinforzo all'estradosso tramite placcaggio con materiali compositi; 3) ripulitura perimetrale del foro, protezione del bordo con interventi localizzati attraverso l'utilizzo di malte idonee (inerente a quelle che hanno subito un crollo parziale e di cui vogliamo darne testimonianza, secondo lo spirito del progetto descritto nel capitolo 6).


Pavimenti. Mentre al piano primo i pavimenti in pianelle in cotto che presumiamo originali verranno conservati (mentre quelli che sono banali superfetazioni di epoca recente verranno rimossi), al piano terra si profilano due differenti azioni: da un lato si cercherà possibilmente di conservare quanto è rimasto dei pavimenti originari descritti nel capitolo 3, rimettendoli in continuità col progetto del nuovo (pianta Tavola 6), come se fossero anch’essi un materiale da costruzione tra gli altri; dall’altro il progetto del nuovo coinvolgerà anche la realizzazione di nuovi pavimenti che non andranno a sostituirne altri (visto che mancano) ma si proporrà appunto come nuova possibilità. Prevediamo l’utilizzo di pavimenti a superficie continua.


Tramezzature. Alcune tramezzature verranno rimosse in base al soddisfacimento delle nuove esigenze spaziali, pertanto si confrontino le piante tra lo stato attuale e il progetto (Tavola 3 e 6).
7.2.4 Apparato strutturale.
Fondazioni. Si prevede la realizzazione di una platea rigida in calcestruzzo armato, al fine di creare un unico piano di appoggio continuo per tutti i muri interni (i muri maggiormente caricati dai solai e con scarsa capacità portante in fondazione).


Grotte. Dopo averle descritte nel capitolo 3, al momento sono in fase di studio, in relazione alle fondazioni.


Muri portanti. Dopo averle descritte nel capitolo 3, ed evidenziato lo spirito del progetto nel capitolo 6, gli interventi tipologici per il recupero strutturale di tali emergenze sono: 1) cuci-scuci: intervento volto a ricreare la continuità della maglia muraria in resistenza ed in rigidezza con elementi di uguali caratteristiche meccaniche e dimensioni; 2) ristilatura dei giunti: intervento volto a ristabilire le caratteristiche meccaniche della muratura ricreando il legame tra i conci adiacenti; 3) cerchiature metalliche di archi e voltine in muratura: inserimento di elementi metallici all'intradosso degli archi e delle voltine in muratura con lo scopo di ricreare continuità di scarico delle azioni di contrasto tra i conci laddove si siano lesionati per elevato carico sovrastante; 4) sostituzione degli architravi: Sostituzione dell'elemento architrave laddove si ha una lesione o un'elevata deformazione dello stesso. Conseguentemente a quest'intervento viene eseguito uno scuci- cuci sulla muratura sovrastante lesionata; 6) raddoppio murature con connessioni trasversali. Raddoppio di muratura esistente tramite realizzazione di un secondo paramento murario connesso all'esistente attraverso diatoni artificiali, al fine di incrementare la resistenza e la rigidezza del pannello murario e diminuirne la snellezza; 7) Intonaco armato: realizzazione di intonaco armato su murature eccessivamente compresse e poco rigide con lo scopo di incrementarne l'effetto di confinamento; 8) Inserimento di tiranti e piastre: inserimento di tiranti metallici e piastre di contrasto esterne per eliminare i meccanismi di collasso locali ed incrementare l'effetto scatolare della struttura nel suo insieme. Tale intervento è dovuto dalla presenza di meccanismi locali già attivi; 9) Apertura di nuovi varchi e riapertura di quelli tamponati allo stato attuale: inserimento nuovi di architravi nel primo caso, sostituzione o integrazione degli architravi precedenti nel secondo caso, come previsto dal punto 4.


Volte. Come detto, le uniche volte strutturali le troviamo nella copertura delle grotte, e al momento sono in fase di studio, in relazione alle fondazioni.


Solai. Tenendo presente quanto descritto nel capitolo 3 e lo spirito della proposta progettuale contenuta del paragrafo 6.3.4, avanziamo queste due
differenti ipotesi di intervento sulle preesistenze: 1) Sostituzione dell'orditura principale e secondaria dei solai di piano con elementi metallici e soletta in calcestruzzo armato alleggerito collaborante mantenendo comunque il pianellato esistente; 2) Consolidamento dell'orditura principale del solaio di piano. Inserimento di elementi metallici a supporto della struttura principale esistente. Eventuale sostituzione e raffittimento dei travetti lignei. Realizzazione di soletta collaborante in calcestruzzo alleggerito.


Strutture del tetto. Tenendo presente quanto descritto nel capitolo 3 e lo spirito del progetto descritto nel capitolo 6 si cercherà di operare in tal senso: sostituzione dell'orditura principale e secondaria del solaio di copertura con nuova struttura composta da travi in legno lamellare e travetti a T rovesciato in metallo, mantenendo il pianellato esistente. Inserimento in sommità di doppio tavolato connesso e controventato nel piano con elementi in acciaio. Intervento diffuso sulla totalità delle strutture di copertura volto a instaurare un effetto scatolare nella sommità dell'edificio e al tempo stesso mantenerne il più possibile le capacità meccaniche (Tavola 6, Interventi strutturali tipo).


Corpo scala. Come descritto nel capitolo 3, l’edificio ha due corpi scala: uno di servizio e l’altro di rappresentanza. Quello di servizio verrà rimosso per far posto ad un elevatore montacarichi idoneo per il sollevamento in verticale delle salme nelle bare (Tavola 6), mentre quello di rappresentanza l’intervento che si intende eseguire consiste nella realizzazione di rinforzi in acciaio da inserire al di sotto delle voltine e di una “cappetta” di malta cementizia fibrorinforzata all’estradosso, per consolidare la parte di struttura in muratura, conseguentemente si procede alla sostituzione degli elementi lignei dei pianerottoli con una struttura metallica e con un piano rigido, adeguati al futuro utilizzo della scala stessa.


Per di più, verrà anche istallato un elevatore, in modo da eliminare qualsiasi barriera architettonica, in vista del cambio d’uso dell’edificio e della sua riapertura al pubblico.
7.2.5 Impianti. Per quanto riguarda l’impianto di riscaldamento provvederemo ad istallarne del tipo a pavimento radiante, considerato anche il fatto che gli interventi sulle strutture orizzontali descritti in precedenza consentono di ovviare a questa fase, e di inserirli senza troppa difficoltà, e soprattutto senza cambiare sensibilmente le precedenti quote dei solai. Prevediamo che l’impianto verrà alimentato da una caldaia a condensazione,
integrata anche da fonti energetiche alternative quali pannelli solari termici.
L’impianto fognario è esistente e allacciato ai collettori pubblici (almeno così risulta da sopralluoghi e controlli preliminari fatti con gli enti preposti), ma sicuramente andrà reintegrato. Così come l’impianto idraulico, vista la nuova destinazione d’uso dell’edificio.


Venendo all’impianto elettrico, proponiamo l’istallazione di sistemi a vista, in modo da non andare ad intervenire direttamente sulle murature e i differenti elementi costituenti le preesistenze, ad esempio con tracce che oltre ad essere invasive nelle finiture quali intonaci o peggio affreschi (dove ce ne sono), sono deleterie anche per la tenuta statica delle stesse murature portanti. Al contrario, un impianto a vista da molte più garanzie, nonché entrare anch’esso in dissonanza con la preesistenza, mettendosi pertanto in sintonia col resto dell’intervento. Prevediamo che l’impianto possa essere alimentato anche da pannelli fotovoltaici, di cui valuteremo anche il collocamento.


Al fine di un controllo ottimizzato su tali impianti integrati, e viste le dimensioni dell’intero edificio, prevediamo che la villa possa dotarsi anche di un certo livello di impianto domotico, in modo da controllare il tutto in maniera più facilitata.


7.2.6 Sistemazioni esterne. Per quanto riguarda l’intervento progettuale inerente alle sistemazioni esterne si rimanda alla Tavola 6 nonché alle direttive di progetto descritte in questa relazione in merito al giardino, all’intero parco che compone la proprietà, compreso di tutti i suoi elementi: dai parcheggi per il pubblico a quelli privati, dai percorsi carrabili a quelli pedonali, dagli spazi di sosta e fermata ai sensi di marcia unici, dal cimitero per gli animali alle zone di sosta e relax così come previste e descritte nella Tavola 6, dalle essenze da mantenere a quelle da integrare, dal giardino secco al sistema della vasca d’acqua.


 


BIBLIOGRAFIA 


L’archivio privato dei conti Marcelli Flori, a cura di Enrica Conversazioni, busta 29, fascicolo 1, 1816-1882, Patrimonio ed interessi, consultabile preso la Biblioteca Comunale Planettiana di Jesi.


Il restauro in architettura – Quadro storico, Maria Piera Sette, Utet, Torino 2001.


Restauro: punto e da capo, Marco Dezzi Bardeschi (a cura di Vittorio Locatelli), Franco Angeli, Milano 1991.


Teoria del restauro, Cesare Brandi, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2000.


Carta “tematica” delle ville “storiche” del territorio di jesi – Medio bacino dell’Esino – Marche centrali, Francesco Bonasera, Gruppo di ricerche geografiche sulla regione marchigiana “Luigi Filippo De Magistris” – Stazione di ricerca “G. M. Feltrini” (1° aprile 1979), consultabile preso la Biblioteca Comunale Planettiana di Jesi.


Breve storia del giardino, Gilles Clément, Quodlibet, Macerata 2012.


Giardini, paesaggio e genio naturale, Gilles Clément, Quodlibet, Macerata 2013.


Lawrence Halprin paesaggista, Jim Burns, Dedalo, Bari 1982.


Architetture nella valle dell’Esino (An) – Casino Salvati, casino Salvoni (Villa-filanda Tommassoni-Grilli), relatore Lorenzo Bartolini Salimbeni, laureandi Alfredo Antonio Saino e Sergio Cordiali, Facoltà di Architettura di Pescara, Università degli studi “G. D’annunzio”, Chieti, A.A. 1990-91.


Giardini delle Marche a cura di Franco Panzini, Banca delle Marche, 1998.


 


NOTE 


1 Storia, restauro, storiografia, Gaetano Miarelli Mariani in Il restauro in architettura – Quadro storico, Maria Piera Sette, Utet, Torino 2001.


2 L’archivio privato dei conti Marcelli Flori, a cura di Enrica Conversazioni, busta 29, fascicolo 1, 1816-1882, Patrimonio ed interessi, consultabile preso la Biblioteca Comunale Planettiana di Jesi. 


3 L’archivio privato dei conti Marcelli Flori, op. cit.


4 L’archivio privato dei conti Marcelli Flori, op. cit.


5 L’archivio privato dei conti Marcelli Flori, op. cit.


6 Storia, restauro, storiografia, op. cit.


7 Architetture nella valle dell’Esino (An) – Casino Salvati, casino Salvoni (Villa-filanda Tommassoni-Grilli), relatore Lorenzo Bartolini Salimbeni, laureandi Alfredo Antonio Saino e Sergio Cordiali, Facoltà di Architettura di Pescara, Università degli studi “G. D’annunzio”, Chieti, A.A. 1990-91, consultabile preso la Biblioteca Comunale Planettiana di Jesi.


9 Carta “tematica” delle ville “storiche” del territorio di jesi – Medio bacino dell’Esino – Marche centrali, op. cit.


10 L’architettura della villa nelle Marche, Francesco Quinterio in Giardini delle Marche a cura di Franco Panzini, Banca delle Marche, 1998.


11 Marco Dezzi Bardeschi, Restauro: punto e da capo, a cura di Vittorio Locatelli, Franco Angeli, Milano 1991, p. 165.


12 Architetture nella valle dell’Esino (An) – Casino Salvati, casino Salvoni (Villa-filanda Tommassoni-Grilli), op. cit.


13 Le Marche: una regione e i suoi giardini, Franco Panzini in Giardini delle Marche, op. cit.


14 Carta “tematica” delle ville “storiche” del territorio di jesi – Medio bacino dell’Esino – Marche centrali, op. cit.


15 Storia, restauro, storiografia, op. cit.


16 L’architettura della villa nelle Marche, op. cit.


17 Storia, restauro, storiografia, op. cit.


18 Il restauro in architettura – Quadro storico, Maria Piera Sette, Utet, Torino 2001.


19 Storia, restauro, storiografia, op. cit.


20 Storia, restauro, storiografia, op. cit. 21 Storia, restauro, storiografia, op. cit.
L’archivio privato dei conti Marcelli Flori, a cura di Enrica Conversazioni, busta 29, fascicolo 1, 1816-1882, Patrimonio ed interessi, consultabile preso la Biblioteca Comunale Planettiana di Jesi.
8 Carta “tematica” delle ville “storiche” del territorio di jesi – Medio bacino dell’Esino – Marche centrali, Francesco Bonasera, Gruppo di ricerche geografiche sulla regione marchigiana “Luigi Filippo De Magistris” – Stazione di ricerca “G. M. Feltrini” (1° aprile 1979), consultabile preso la Biblioteca Comunale Planettiana di Jesi.


22 Il restauro in architettura – Quadro storico, op. cit.


23 Il restauro in architettura – Quadro storico, op. cit., p. 193.


24 Il restauro in architettura – Quadro storico, op. cit., p. 193.


25 Il restauro in architettura – Quadro storico, op. cit., p. 193.


26 Il restauro in architettura – Quadro storico, op. cit., p. 195.


27 Il restauro in architettura – Quadro storico, op. cit., p. 196.


28 Il restauro in architettura – Quadro storico, op. cit., p. 74.


29 Le sette lampade dell’architettura, John Ruskin in Il restauro in architettura – Quadro storico, op. cit., p. 74.


30 Storia, restauro, storiografia, op. cit.


31 Il restauro in architettura – Quadro storico,


32 Il restauro in architettura – Quadro storico,


33 Il restauro in architettura – Quadro storico,


34 Il restauro in architettura – Quadro storico,


35 Le Marche: una regione e i suoi giardini, op.
op. cit., p. 194. op. cit., p. 194. op. cit., p. 194. op. cit., p. 190. cit., pp. 34-35.

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    POGGIO DEL COMMIATO Il progetto di recupero della villa Marcelli-Flori in Jesi: un racconto. PREMESSA Visti gli ultimi accadimenti nel campo della giurisprudenza che regola le attività commerciali quali le cosiddette “sale del commiato” abbiamo ritenuto indispensabile chiarire preventivamente i seguenti punti: 1) La Legge Regionale n. 20 del 16/03/2000 regolamentava la realizzazione di strutture destinate alla erogazione di prestazioni sanitarie e socio-sanitarie comprese le...

    Project details
    • Year 2018
    • Status Unrealised proposals
    • Type Parks, Public Gardens / Public Squares / Cemeteries and cemetery chapels / Urban Furniture / multi-purpose civic centres / Churches / Parking facilities / Single-family residence / Country houses/cottages / Business Centers / Corporate Headquarters / Hospitals, private clinics / Nursing homes, rehabilitation centres / Theme Parks, Zoos / Interior Design / Custom Furniture / Lighting Design / Leisure Centres / Monuments / Shrines and memorials / Temples / Recovery/Restoration of Historic Buildings / Restoration of Works of Art / Restoration of façades / Structural Consolidation / Furniture design / Product design / self-production design / Building Recovery and Renewal
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