SPAZI CELLULARI | CLAUDIA BONOLLO

IL CORPO IMMAGINATO installazioni di spazi sensibili con musica, luce e colore Paris / France / 2009

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IL CORPO IMMAGINATO
di Claudia Bonollo

La ricerca IL CORPO IMMAGINATO, è nata nel 2002, nel tentativo di creare attraverso l’arte, un’arte fra molti confini, un punto di vista diverso sul corpo umano. E' un vero e proprio work in progress.

Natura e cultura sono due nomi che impieghiamo per designare l’ambivalenza con cui il CORPO si esprimeva nelle società arcaiche e l’equivalenza a cui oggi è stato ridotto nelle nostre società dai codici che le governano e dal corredo delle loro iscrizioni.
Sommerso dai segni con cui la scienza, l’economia, la religione, la psicanalisi, la sociologia di volta in volta l’hanno connotato, il corpo è stato vissuto, in conformità alla logica e alla struttura dei vari saperi, come organismo da sanare, come forza-lavoro da impiegare, come carne da redimere, come inconscio da liberare, come supporto di segni da trasmettere. Come “significato fluttuante” il corpo confonde i codici con quella operazione simbolica che consiste nel comporre (sym-balléin) quelle disgiunzioni in cui il codice si articola quando divide il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto, Dio e il mondo, lo spirito e la materia, ottenendo quella bivalenza dove il positivo e il negativo si rispecchiano, producendo quella realtà immaginaria da cui traggono la loro origine tutte le “speculazioni”.

Il mio punto di partenza è stata il referto istologico di una cellula patologica senza speranza, il dato scientifico della malattia, che ho trasformato poeticamente con il computer e i suoi algoritmi. Cercavo un gesto di redenzione, qualcosa che riuscisse a trovare una misteriosa connessione fra la malattia e la bellezza. La possibilità di una visione che andasse al di là delle statistiche implacabili e che fosse capace di ribaltare il “panico” in Eco, la sua ninfa. Cercavo, insomma, una coscienza diversa della malattia, un dialogo con la cellula che tenesse conto della sua polarità.

Quando tutto è cominciato, non avrei mai sospettato l’evoluzione della ricerca, che si estesa allo studio di tutto il corpo umano, delle emozioni e della felicità, né che le cellule trasfigurate si trasformassero in un progetto multidisciplinare dalle molteplici applicazioni.

Sono debitrice agli apporti inaspettati di persone provenienti da differenti discipline (critici d’arte, filosofi, antropologi, medici, biologi, neurobiologi, psicologi, psichiatri e teologi) che si sono interessate al mio lavoro, e alle lezioni di biologia impartite da una ricercatrice dell’Istituto Ramón y Cajal che mi ha fatto conoscere e scoprire l’iconografia scientifica, e il microscopio elettronico, vera fonte d’ispirazione.
Le letture di James Hillman e Henry Corbin, sono state illuminanti. Il mundus imaginalis a cui si fa riferimento è l’intermundi descritto dagli studi di Henry Corbin. Si tratta di un mondo intermedio, sospeso tra il celeste e il terreno, in cui tutte le trasfigurazioni sono possibili, le rappresentazioni diventano ierofanie, manifestazioni del sacro. L’immaginario può essere innocuo, l’immaginale non lo è mai.
Lo studio di testi legati alle visioni del mondo iraniano, Ib’n Arabi, Sohravardi e soprattutto a Najmoddin Kobrâ, hanno contribuito a un lavoro artistico attento ai fenomeni della luce e del colore.

SPAZI CELLULARI (ESPACIOS CELULARES)
Fernando Quesada

Quando parliamo dello spazio che ospita le opere d’arte soliamo qualificarlo come spazio per l’arte, e se desideriamo analizzare il tema ci assale un dubbio iníziale, dobbiamo scegliere fra un approccio storico, un attraversamento panoramico attraverso la storia di questi spazi o è più appropriato un tono militante, riferirendoci a dei casi eludendone altri e supporre qualcosa di esemplare?

Vista cosí la situazione di partenza sembra una strada senza uscita –gesamtkunstwerk versus spazio specializzato e neutro-, può suggerire il ritorno alla radice del problema, al linguaggio stesso: spazi per l’arte?
Forse esiste uno scivolamento preposizionale inadeguato. La proposizione “per” implica la generazione in un luogo o da un punto originale che è diverso del destino desiderato, l’arte, e per questa ragione implica condurre, canalizzare, orientare. Perché non “de” al posto di “per”? Spazio del arte, dunque.

Le proposte di Claudia Bonollo non si limitano alla cornice dell’opera d’arte, ma hanno una chiara vocazione di costruire, dalla loro materialità luminosa, atmosferica e psicologica, uno spazio di queste caratteristiche.
Quando si aborda questo tema surge sempre, senza eccezioni, il tema del limite. Il limite fra il supporto e l’opera, tra l’architettura e l’arte. Le discussioni tra uno e l’altro fronte si scontrano nella loro ansia di protagonismo e competenze, il più delle volte in detrimento del prodotto al quale è dedicata la propria discussione: l’opera d’arte. Ciò accade quando si generano spazi per l’arte. Entra così nel quadro la servitù di un elemento rispetto all’altro, e si stabilisce fra i due più che una tensione dialettica, un confronto sterile.

Gli spazi espositivi modello cubo bianco vengono criticati per il loro alto grado di sudditanza rispetto all’opera di formato, con tecniche e manifatture classiche, e non permettono interventi più ambiziosi, per il loro inevitabile carattere di vetrina ottocentesca senza rischi né sperimentazione: spazio un tanto al chilo, metri quadrati di pavimento e di pareti, supermercato o parcheggio a ore.
D’altro canto, gli spazi architettonici più audaci ricadono nel pericolo opposto: nella asfissia che impongono alle opere d’arte, a cui negano autonomia, in altre parole: presenza.

È qui dove entra l’artista, che davanti l’incomprensione delle sue necessità, si trova costretta ad aquisire un atteggiamento militante contro gli spazi per l’arte, proponendo la costruzione di una serie di spazi sentimentali, inmateriali, “spazi dell’arte” insomma. I ritratti cellulari invitano lo spettatore a divenire l’ingrediente fondamentale del nuovo spazio costituito. Le cellule, ingigantite, possono leggersi a distinti livelli: ritratti classici e speculari, elementi puramente decorativi e infine come dispositivi attivatori per uno spazio diverso. Eppure e nonostante i diversi gradi di complessità delle letture, in ognuna di queste interpretazioni esiste uno spazio personale.
Nel ritratto speculare, troviamo lo spazio narcisista caratterizzato dalla distanza fra l’Io e il riflesso e che inevitabilmente incorpora tutto ciò che rimane fra il nostro corpo reale e il nostro corpo ritratto, in altre parole: la realtà esteriore nell’opera.
Se interpretiamo questi spazi come decorativi, lo spazio architettonico ci appare nella sua versione più pura e disciplinare, la parete viene attivata dalla vibrazione del colore e della texture, dalla luce che emana e dalla superficie viva. È lo spazio cartesiano che si materializza attraverso la percezione che ne abbiamo.
Nel dispositivo attivato si parte da ciò che lo precede, però spingendosi oltre, il corpo viene proiettato verso il supporto fisico dell’opera, in un dialogo spaziale biunivoco, intimo, che fonde parte dei due spazi precedenti e incorpora l’apparato psico-fisiologico dello spettatore, ritrattato o meno, all’opera stessa e al suo intorno spaziale immediato.

Lo spettatore dell’opera d’arte, in modo particolare nel ritratto, introduce nello spazio un ingrediente che lo salva dagli estremi sopra descritti, tanto dell’eccesso d’aria come dall’asfissia.
Nel confronto fra l’opera, di qualsiasi formato, e il supporto architettonico se presente, esisterà sempre lo spettatore per configurare uno spazio fatto di relazioni che denominiamo qui spazio dell’arte o spazio sensoriale. Detto spazio deve essere capace, idealmente, di incapsulare l’opera e lo/gli spettatore/i nel suo universo formale, costruttivo e discorsivo, attraendoli verso il suo interno più profondo, senza l’esistenza fisica del supporto architettonico.

Solo dallo spettatore dipende la riuscita dello spazio dell’arte, quello in cui il supporto viene annullato completamente e non impone alcuna cornice all’opera, uno spazio senza limiti, senza forma, senza pavimento né pareti, né materia. È lo spettatore, in forma di ritratto macroscopico, il tema per eccellenza del lavoro di Bonollo, in tutti i casi.
Le Corbusier definí questo spazio espace indicible, ovvero uno spazio non determinabile con parametri materiali, descritto come un’azione-reazione di tipo ondulatorio che viene stabilita fra l’opera e lo spettatore in una concordanza di vibrazioni reciproche che annulla ogni elemento materico. Questo spazio che scaturisce dalla contemplazione ipnotica e terapeutica di un’opera d’arte illuminata adeguatamente ed esposta in condizioni teoriche perfette, impone leggi proprie di misura dello spazio. Lo spazio metrico-decimale come unico parametro di misurazione spaziale viene superato, sostituendo alla metrica un sistema fisiologico di caratterizzazione spaziale.

Così uno dei paradigmi storici dello “spazio dell’arte” è l’annullamento assoluto, da parte del nostro sistema percettivo, dell’architettura, un trance riuscito grazie alla sublimazione dell’esperienza estetica, un’altra forma del sublime.

Il desbordare dell’opera verso lo spettatore nel Barocco e il dislocamento sensoriale dello spettatore di paesaggi del Romanticismo si producevano per la coincidenza di due elementi: l’abilità dell’artista o l’architetto e la predisposizione dello spettatore. Nel primo caso, nel Barocco, lo spettatore era perfettamente allenato al superamento dei limiti, grazie a un fenomeno esterno all’arte: il fervore religioso, la pratica dell’estasi. Nel secondo caso, nel Romanticismo, lo spettatore era avezzo ad un’altra pratica, in questo caso laica e colta, l’esperienza del sublime.
Lo spettatore non è semplicemente soggiogato o sedotto, si lascia sedurre, soccombe per volontà propria, apportando il suo sistema fisico-fisiologico come strumento di costruzione di uno spazio sensibile e immateriale.

Dobbiamo elaborare un programma per la configurazione degli spazi dell’arte, o di spazi sensibili, smettendo di imporre all’opera d’arte una cornice che pretende di essere neutrale e finisce poi per appesantirla con un’impronta materiale. Va eliminata quasiasi vestigia di materialità, di architettura, deve dissolversi l’artefatto, l’apparato culturale intermedio che funge da filtro fra l’opera d’arte e lo spettatore.

Nel ritratto cellulare il corpo sfugge il proprio limite cutaneo, alla presenza energetica o termica, per proiettarsi liberamente sul supporto architettonico e annullare la propria materialità che viene sostituita da un nuovo limite più flessibile e immateriale.
Il corpo inside-out si trasforma così in uno strumento di costruzione sensoriale dello spazio dalle possibilità illimitate, sia che si considerino meramente estetiche o più specializzate, rituali, terapeutiche, pseudo-religiose o narcotiche.

Il valore e l’importanza del lavoro di Bonollo non risiede in assoluto nei suoi effetti, dal taglio preponderantemente terapeutico per il ritrattato, e nemmeno nelle sue qualità materiali o estetiche per lo spettatore esterno non ritratto, bensí nelle sue possibilità come strumento, nella sua costituzione di un nuovo sistema con leggi proprie. Gli spazi che si possono generare sono cvanali sensoriali proiettati in multiple direzioni e con diverse intensità, tane spaziali in cui il corpo naviga senza sottrarsi alle regole del sistema metrico di riferimento. Questi spazi negano l’architettura, sostituendola con il proprio corpo senza scivolare nell’analogia, la metafora o qualsiasi altro tropo linguistico.

Le maggiori responsabilità dell’artista gli impongono di andare assai più oltre la mera colonizzazione degli spazi materiali, più in là dell’arredamento nomade e critico-discorsivo degli “spazi per l’arte” istituzionali, fino ad arrivare a proporre autentici “spazi dell’arte”.

L’opera d’arte deve essere capace di imporre la sua presenza sull’architettura fino ad annullarla, e affinché ciò avvenga deve esistere una predisposizione iniziale dello spazio materiale alla propria estinzione. Nel lavoro di Claudia Bonollo rimane solo il corpo e lo spazio. (Fernando Quesada)


ARCHITETTURA | ARCHITECTURE
Claudia Bonollo di Luigi Prestinenza Puglisi

Il lavoro di Claudia Bonollo mi fa pensare a quattro cose. La prima è la riflessione che fa Gregory Bateson sull'arte intesa come l'elaborazione metaforica che supera, per accuratezza epistemologica, il ragionamento scientifico. Quest'ultimo, infatti, occupandosi solo di nessi causali, è incapace di rendere conto di un equilibrio complessivo, di una intelligenza all'opera nella natura, che le pratiche estetiche, il sogno, l'intuizione, il gioco riescono a svelare con più esattezza e facilità. E', per usare un'espressione dello stesso Bateson, solo un arco rispetto a un cerchio. La seconda è la vitalità dell'eredità dell'astrattismo: da Klee a Kandinsky a Mirò. Cioè di un approccio che scruta la forma nel suo darsi, quando ancora non è riducibile a una geometria ma allo stesso tempo è già qualcosa di più che ineffabile energia. E che, proprio perché in bilico tra l'astratto e il concreto, riesce a dare conto di entrambi, rappresentando quel processo di formazione del vivente che affascina la nostra coscienza. La terza è la propensione, tipicamente veneta, per il colore. La ricchezza della pasta cromatica rispetto alla povertà della linea, la magnificenza della luce contro la perentorietà del segno.
La quarta è, infine, la riflessione sulle geometrie complesse e sui pattern luminosi permessa oggi dall'uso del calcolatore e dalla sua velocità e facilità nel tradurre un sistema di segni in un altro: energia in colore, segni in campiture, linee forza in configurazioni bidimensionali e tridimensionali.

Come si accordano tra loro questi quattro aspetti? Non saprei. E' difficile metterli insieme in una unica sintesi e credo che Claudia Bonollo eviti, e giustamente, di affrontare più di tanto il problema dal punto di vista teorico. L'obiettivo che si prefigge è, innanzitutto, sperimentale. Come una maga, o meglio con la magia dell' artista, la Bonollo opera sintesi, coniugando ingredienti diversi. Saranno gli altri a scoprire se il suo lavoro avrà ricadute scientifiche, estetiche o di altra natura perché ogni interpretazione è aperta e ogni esperienza è possibile. Le immagini delle cellule, come proiezioni di una interiorità che non ci è dato altrimenti vedere, potrebbero avere potere curativo, se non altro dal punto di vista psicologico. Alcune sperimentazioni condotte in campo medico sembrerebbero alimentare questa ipotesi. Ma potrebbe essere anche che il lavoro della Bonollo sia solo un raffinato gioco di proiezioni, una messa in scena che, con gli strumenti dell'arte, ci rende partecipi del modo di formarsi del mondo, una fenomenologia degli stati sorgivi. Oppure, e anche in questo caso non sarebbe poco, una apoteosi del colore, della luce e dell'energia raffigurati da chi ha nel sangue cinque secoli di pittura tonale e oggi la gestisce con animo ancestrale e con tecnologie sofisticate. (LPP)

CLAUDIA BONOLLO: IL CORPO IMMAGINATO di anna Baldin

Claudia Bonollo è un'artista sperimentale. Il suo lavoro è caratterizzato da una ricerca sui materiali che assembla in modo sempre originale e innovativo grazie anche all'ausilio di nuove tecniche e tecnologie. Recupera e utilizza vari tipi di linguaggio sconfinando in discipline diverse e apparentemente lontane dall'arte. La luce e il colore sono temi centrali nelle sue opere sia architettoniche che artistiche. Infatti nel suo lavoro la stretta relazione tra arte e architettura è costante: lo spazio è sempre caratterizzato dalla luce e dal colore, dalle trame, dalle tessiture e dalla miscela di materiali diversi. Vive e lavora a Madrid, ma è nata e ha studiato a Venezia dove si è laureata all' U.I.A. (Università Internazionale d'Arte) e successivamente in architettura.

IL CORPO IMMAGINATO, la sperimentazione che Claudia Bonollo porta avanti dal 2002 è difficilmente schematizzabile e alquanto singolare. È un progetto artistico basato sul colore che ha per oggetto il corpo umano. Questo viene indagato con l'occhio dell'artista che ne ricava suggestioni e sensazioni. Tutto nasce come un atto di ribellione ad un referto medico crudele e senza speranza. E con lo strumento dell'artista, il colore, che le deriva anche dalla sua origine veneziana, Claudia Bonollo inizia la trasformazione dell'immagine delle cellule malate. "Ho preso il dato scientifico della malattia e l'ho trasformato poeticamente con il computer e i suoi algoritmi. Cercavo un gesto di redenzione, qualcosa che riuscisse a trovare una misteriosa connessione fra la malattia e la bellezza. La possibilità di una visione che andasse al di là delle statistiche implacabili e che fosse capace di ribaltare il "panico" in Eco, la sua ninfa. Cercavo, insomma, una coscienza diversa della malattia. Le "cellule trasfigurate" rappresentano un possibile dialogo spirituale con la malattia, il tentativo di una elaborazione sperimentale sull'immaginazione attiva.". "La cellula patologica si trasforma in un corpo di luce che immagina la sua salvezza."

Una ricerca emozionale. Una rievocazione, inizialmente inconscia, del potere catartico dell'arte nella sua accezione più ampia che racchiude anche la musica e drammaturgia. Le antiche tragedie greche, come spiega Aristotele nella sua Poetica, aiutano, mediante le forti vicende rappresentate, lo spettatore a distaccarsi dalle passioni e dai problemi quotidiani. Stesso potere viene attribuito alla musica. Su questa scia, la psicoanalisi, da Freud in poi, attribuisce alla catarsi artistica il potere di liberare l'individuo dalle emozioni che lo opprimono e di recuperare le energie vitali. Nelle antiche civiltà asiatiche, mesopotamiche, egizie ai colori era attribuito potere curativo. E anche i greci, inserendosi in questa tradizione millenaria, utilizzavano i colori per curare le malattie. Non a caso la sperimentazione della Bonollo si chiama, in un primo momento, "SENZA BELLEZZA NON SI CURA". La cellula malata, ormai trasformata in cellula sana dai colori, infonde nuova energia vitale a chi la osserva e permette di recuperare le forze per combattere la malattia, qualunque essa sia, non necessariamente maligna.

Una ricerca che in breve si allarga a tutto il corpo umano, allo studio delle emozioni, della felicità. Le cellule trasfigurate si trasformano in un progetto multidisciplinare dalle molteplici applicazioni, che necessariamente sconfina in altre discipline che sembrerebbero totalmente estranee all'arte: medicina, biologia, neurobiologia, psicologia, psicoanalisi e teologia. "IL CORPO IMMAGINATO" è oggi un progetto multimediale che propone, attraverso l'arte, un punto di vista diverso sul corpo umano, la malattia e la guarigione. Ma Claudia Bonollo non è una terapeuta, anche se collabora con tanti terapeuti e le sue sperimentazioni si sono trasformate in un progetto multidisciplinare di una terapia come arte. Claudia Bonollo è un architetto artista e da questo lavoro ha tirato fuori installazioni in cui ha coniugato arte e architettura, elementi reali e elementi virtuali, ha creato spazi in cui i sensi sono stimolati da una percezione di benessere. Le cellule trasfigurate sono una mappa della coscienza, i paesaggi biologici sono cartografie dell'essere in cui il corpo è rappresentato come un oggetto sacro, gli spazi sensibili sono ambienti virtuali, proiezioni dove si sperimentano vari livelli di benessere, le narrazioni cromatiche sono cortometraggi o tecniche sperimentali di visualizzazione con i colori.

Nel 2008 ha realizzato uno spazio cellulare nel Patio dell'Istituto Italiano di Cultura di Madrid, con Il Patrocinio dell'Ambasciata d'Italia, un'installazione con proiezioni e musica. Un grande successo, che dopo breve tempo si è replicato a Parigi. Infatti il suo lavoro artistico è stato selezionato da Bernard Légé, Responsabile dei Progetti di Ricerca e Delegato di "Image et Science", emanazione del CNRS di Parigi e dal Direttore di CAMERA (Conseil Mondial pour les Études et le Réalisations sur l'Art) per una grande mostra nella Chapelle de la Salpêtrière a Parigi, nel gigantesco complesso ospedaliero dove Charcot e Freud cominciarono i loro primi studi sull'ipnosi. (AB)
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    Project details
    • Year 2009
    • Work started in 2008
    • Work finished in 2009
    • Client vari
    • Status Completed works
    • Type Government and institutional buildings / Churches / Lighting Design / Photography
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