Mulino | Massimo Valente
Ho visto persone molto facoltose lavorare in un seminterrato, altre con case da sogno, vivere nel tinello.
Verrebbe spontaneo esprimere dei giudizi di valore in merito a questa affermazione, ma mi soffermerei invece sulla necessità di un senso di riservatezza e sul fatto che la dimensione dello spazio ha
le sue regole, o meglio le sue proporzioni, e se uno spazio male ci accoglie, è perché è mal progettato.
Per tale ragione pongo alla fine quest’ultimo progetto che è stato il mio spazio di lavoro.
Quando ho salito le ripide scale in legno scricchiolante di questo edificio, già si percepiva tutta la
storia che permeava i suoi muri di pietra.
Sensazione che ha trovato conferma nell’immagine che mi si è posta davanti alla porta d’ingresso, uno spazio a tutt’altezza con un pavimento in tavolato di legno inchiodato attraverso le cui fessure
si intravedeva il piano sottostante. Una fabbrica di idee che ha visto passare tanti bravi artisti e progettisti
tra i quali non posso non menzionare gli stARTT, e molti altri, che come me, hanno abitato queste mura.
La grande navata di circa 200,00mq con il suo soffitto alto 4,50ml era suddivisa in base alle campate
dei pilastri ed io ne occupavo una di queste.
I ragazzi che mi avevano preceduto avevano talmente saturato lo spazio che ben poco rimaneva della poesia dettata dalla semplicità di materiali genuini, legati alla produzione di farine.
Infissi in ferro col tempo oramai fatiscenti dai quali penetrava spesso la pioggia, travi in acciaio a cui erano appese, come carriponte, le catene per il sollevamento dei sacchi, lo scivolo a chiocciola in legno, una vera opera d’arte, su cui questi venivano fatti scivolare e il trespolo in cui venivano confezionati.
E la prima riflessione è stata proprio in merito alla riservatezza.
Coloro che mi hanno preceduto hanno tutti posizionato una libreria a ridosso dell’ingresso, per rendere più privato questo spazio. Ma che senso ha rendere privato un open space?
Di conseguenza una delle prime scelte è stata proprio quella di eliminare qualsiasi barriera guadagnando in questo caso la sensazione di uno spazio che si proiettava al di fuori della propria campata di appartenenza, trasformando la forma quadrata, in un rettangolo.
Forma di cui se ne riconosceva la sagoma tratteggiata in altezza, dalla trave di campata, ed enfatizzata dal posizionamento degli arredi che ricucivano la superficie di appartenenza.
Il lato con le due superfici finestrate è stato scandito dalla disposizione delle cassettiere su ruote e dal grande quadro.
Ai bordi due scrivanie lineari di circa 6,00ml funzionano come grande piano di appoggio che nasce
con lo scopo di posizionare tutta la documentazione di studio in modo da lasciare libero il tavolo principale.
La dimensione residua al centro era talmente esuberante che per addomesticarla, nel vero senso
della parola, è stato necessario disegnare un tavolo quadrato di 2,40x2,40ml, di dimensioni pari quasi a quelle di una stanza singola.
Su di esso cala una lampada di tipo industriale che abbassa il soffitto ad una quota a dimensione più umana.
Tutto questo per dire che è lo spazio che accoglie la dimensione degli oggetti e non viceversa, a meno di una progettazione ex novo. In questo caso ha accolto il grande tavolo, che all’occorrenza, si trasformava in un campo per tornei di ping pong.
Ho visto persone molto facoltose lavorare in un seminterrato, altre con case da sogno, vivere nel tinello. Verrebbe spontaneo esprimere dei giudizi di valore in merito a questa affermazione, ma mi soffermerei invece sulla necessità di un senso di riservatezza e sul fatto che la dimensione dello spazio ha le sue regole, o meglio le sue proporzioni, e se uno spazio male ci accoglie, è perché è mal progettato. Per tale ragione pongo alla fine quest’ultimo...
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